Le plastiche compostabili spesso non possono essere smaltite dagli impianti italiani che trattano l’organico. Così tuonava l’ultimo report di Greenpeace, che avevamo analizzato qui. Ma Biorepack e Assobioplastiche, le principali associazioni del settore, non ci stanno.

Per confutare le accuse degli ambientalisti, hanno acquistato una pagina sul Sole 24 Ore e altri quotidiani nazionali.

Secondo i due Consorzi, le informazioni contenute nel report dell’associazione ambientalista sono “frutto di un’indagine parziale e superficiale che mette sul banco degli imputati le bioplastiche compostabili, sfruttando le dichiarazioni di alcuni accademici e operatori dei riciclo”.

Un approccio ritenuto “pregiudiziale”, accusano Assobioplastiche e Biorepack che denunciano un loro “mancato coinvolgimento” nell’indagine, in quanto “attori fondamentali della filiera industriale e del riciclo delle bioplastiche, nonché del CIC-Consorzio italiano dei compostatori, del quale però l’inchiesta riporta diversi dati.

“La quasi totalità degli impianti accetta e gestisce senza alcun problema la presenza di manufatti in plastica compostabile nel flusso di organico conferito, sia nel caso di processi biologicidi solo compostaggio, sia nei processi integrati di digestione/compostaggio”, si legge su Il Sole. “Piuttosto che fare una crociata contro le bioplastiche – concludono – occupiamoci di capire cosa dà veramente fastidio al compost e ai processi per produrlo e lavoriamo per risolvere le eventuali criticità che esistono negli impianti, causate dalla presenza di materiali non compostabili nel rifiuto umido”.

La replica (alle repliche) di Greenpeace

Greenpeace Italia risponde alle obiezioni mosse dalle due associazioni e precisa:

È doveroso ricordare come la nostra inchiesta si basi sulle testimonianze di personalità accademiche che collaborano con prestigiose università italiane, di professionalità tecniche del settore e dei laboratori coinvolti nel rilascio delle certificazioni sulla compostabilità. Evidentemente, durante la lettura superficiale fatta da Assobioplastiche e Biorepack, è sfuggita la pluralità di competenze scientifiche che caratterizza l’inchiesta.

La replica punto per punto:

Sulla raccolta differenziata delle plastiche compostabili insieme ai rifiuti organici

Quanto affermato nell’inchiesta si basa su ciò che hanno dichiarato all’Unità Investigativa di Greenpeace Italia esperti dell’European Compost Network (ECN) e dell’European Bioplastics, l’associazione che rappresenta gli interessi dell’industria di settore. In particolare, in relazione agli impianti che hanno al centro del processo la digestione anaerobica (dove in Italia confluisce il 63% della frazione umida), ECN ha dichiarato che la tecnologia degli impianti anaerobici non permette la degradazione della plastica compostabile.

Precisa lo European Compost Network:

L’assenza di ossigeno, i brevi tempi e le temperature relativamente basse di solito non garantiscono una biodegradazione completa degli articoli compostabili.

Lo stesso conferma anche Utilitalia, che segnala come “i trattamenti di sola digestione anaerobica risultano praticamente inefficaci rispetto all’adeguata degradazione di questo tipo di materiali”. Questo perché la plastica compostabile si biodegrada in presenza di ossigeno, mentre gli impianti anaerobici hanno dei reattori che funzionano in assenza di ossigeno. In merito agli impianti di compostaggio, invece, lo European Compost Network segnala come le plastiche compostabili dovrebbero essere inviate agli impianti solo se migliorano la qualità del compost, affermazione che nell’inchiesta abbiamo mostrato non essere sempre vera.

2. Sulla percentuale di rifiuti organici che finiscono in impianti che hanno difficoltà a trattare le plastiche compostabili

In merito alla percentuale di frazione organica inviata agli impianti, i dati fanno riferimento al Catasto rifiuti di ISPRA.

L’analisi di Greenpeace Italia, non volendo essere superficiale, prende in considerazione la sola frazione umida, ovvero la porzione di rifiuti in cui effettivamente confluiscono le plastiche compostabili. Proprio per “ristabilire la verità”, infatti, si è scelto di eliminare dal computo le frazioni dove la plastica compostabile non viene conferita (fanghi e verde, per esempio).

3. Sulla parzialità dell’inchiesta, i problemi della certificazione e il coinvolgimento di Assobioplastiche e Biorepack

È doveroso ricordare, scrivono da Greenpeace, come l’inchiesta si basi sulle testimonianze di personalità accademiche che collaborano con prestigiose università italiane, di professionalità tecniche del settore e dei laboratori coinvolti nel rilascio delle certificazioni sulla compostabilità.

Evidentemente, durante la lettura superficiale dell’inchiesta effettuata da Assobioplastiche e Biorepack, è sfuggita la pluralità che caratterizza questa inchiesta. Per assicurare la pluralità delle voci, l’inchiesta include tra gli intervistati anche Carmine Pagnozzi, direttore tecnico di Biorepack.

Infatti, nell’inchiesta è lo stesso Pagnozzi a dichiarare:

In alcuni impianti gli imballaggi in bioplastica sono vittime del processo di vagliatura. La fase di vagliatura nasce per eliminare i materiali non compostabili che purtroppo finiscono nella frazione organica, compromettendone la qualità. Peccato però che in questo modo, insieme ai materiali non conformi, la vagliatura porti via anche l’umido, fino a un terzo del totale, nonché le bioplastiche”. Un filtro iniziale che non può essere ancora eliminato perché “in alcune aree del nostro Paese la frazione umida dei rifiuti è pesantemente contaminata da materiali non compostabili e per questo motivo si è costretti a fare la vagliatura iniziale.

4. Sugli incentivi alle plastiche compostabili e sulla SUP

Inoltre, negare che il comparto delle plastiche compostabili abbia ricevuto un trattamento agevolato negli ultimi anni (a titolo di esempio si segnalano gli sgravi fiscali sotto forma di credito d’imposta nella legge di bilancio 2019) vuol dire non voler affermare il vero. Assobioplastiche e Biorepack contestano a Greenpeace Italia di non menzionare la questione shopper.

Anche qui Greenpeace replica che gli shopper non rientrano tra i manufatti con problemi di degradazione negli impianti; problematica che, in base alle testimonianze raccolte, interessa i manufatti e imballaggi rigidi.

L’organizzazione ambientalista riconosce la bontà della legge sugli shoppers, proprio perché non prevede la sostituzione uno a uno. Al contrario, con le deroghe ed esenzioni inserite nel recepimento della direttiva europea sulle plastiche monouso (SUP) per i prodotti messi al bando (stovigliame), Greenpeace ravvisa un concreto rischio derivante dalla semplice e massiva sostituzione dei materiali.

Ribadiamo che è lo spropositato ricorso al monouso il problema, indipendentemente dalla tipologia materiale, ed è questo il modello da contrastare per ricondurre i modelli produttivi attuali nei binari della sostenibilità, favorendo allo stesso tempo il ricorso a opzioni durevoli, lavabili e riutilizzabili nel pieno rispetto delle indicazioni comunitarie e della gerarchia europea. Per finire evidenziamo come le nostre indagini vogliono essere uno stimolo importante per preservare un’eccellenza italiana: quella della raccolta dei rifiuti organici che, nel pieno rispetto dell’economia circolare, ci consente di chiudere il cerchio per quel che riguarda la frazione umida.

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Fonte: Greenpeace Italia

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