Il greenbickering (battibecco green) è probabilmente un nuovo termine con il quale imprese, opinione pubblica, amministratori e soprattutto giudici e tribunali, dovranno prendere confidenza.  Il greenbickering si ha quando un’azienda può agire per concorrenza sleale contro un concorrente che, per vendere di più, utilizza impropriamente la leva della sostenibilità aziendale per migliorare la sua immagine i nel mercato e tra i consumatori.

Intanto aumentano i casi di greenwashing anche da parte dei grandi inquinatori ambientali e darsi una pennellata di verde è diventato così popolare che secondo dati Nielsen «Il 60% delle imprese sarebbe caduto almeno una volta in comunicazioni ad impronta green non valide o ingannevoli».

Visto che, soprattutto nei Paesi occidentali, la sensibilità ecologica, si è sviluppata al punto da determinare i comportamenti d’acquisto dei consumatori e di far aumentare il valore di un brand o di unj’impresa, il greenwashing sta diventando concorrenza sleale..

Secondo un’indagine condotta dalla Commissione europea, dalle autorità nazionali di tutela dei consumatori insieme ad altre autorità internazionali, sotto il coordinamento della Consumer Protection and Enforcement Network, «Nel 42% dei casi le autorità hanno ritenuto ingannevoli e non veritiere le comunicazioni green, e quindi messo in atto pratiche commerciali sleali. In oltre il 50% dei casi, le aziende non hanno dato ai consumatori informazioni sufficienti per valutare quanto comunicato in materia di ecosostenibilità; nel 37% il claim conteneva formulazioni generiche, come ‘rispettoso dell’ambiente’, o ‘eco’ e nel 59% dei casi non venivano esplicitati elementi a supporto di quanto dichiarato».

Per questo, a maggio il Parlamento europeo ha approvato con 544 sì, 18 no e 17 astensioni la sua posizione negoziale sulla proposta di direttiva sulla responsabilizzazione dei consumatori per la transizione verde e contro il fenomeno del greenwashing che prevede di vietare l’uso di diciture green generiche come ad esempio a impatto zeronaturalebiodegradabileamico della naturaecologico se non debitamente comprovate, inserendole in un elenco di pratiche commerciali scorrette e illecite.

Rita Santaniello avvocato dello studio multinazionale Rödl & Partner. Spiega: «Ovvero, io azienda posso intentare causa per concorrenza sleale verso uno o più miei competitori che utilizzino marchi, slogan o diciture green non comprovate per vendere di più, quindi sottraendo mercato agli altri, o per ‘inverdire’ la propria immagine, ottenendo così ingiustamente un vantaggio competitivo rispetto agli altri». 

Infatti, secondo una recente ricerca Growh for Knowladge (GfK) in Italia, il 30% dei consumatori dichiara di evitare i prodotti con imballaggi in plastica, mentre il 36% ha smesso di comprare alcuni prodotti ad impatto ambientale negativo.

La Santaniello conclude: «E la mia sensazione è che, definiti i paletti legislativi che comunque lasceranno spazio a ampie eccezioni, concrete attuabilità (i mercati sono oggi globali, ma gli ordinamenti giuridici no) e interpretabilità, le aziende non esiteranno a combattersi su questo fronte. Ma forse questo, al netto dell’aggravio del lavoro dei Tribunali, potrebbe essere anche un bene perché le varie sentenze ed esperienze agevoleranno una regolamentazione più puntuale in materia. Anche se ci vorrà parecchio tempo».

L’articolo Greenbickering contro greenwashing. Aumenteranno i contenziosi legali green tra imprese sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.