Ad oggi l’economia italiana è quella più dipendente in Europa dall’approvvigionamento delle materie prime critiche – alle quali è legato il 38% del Pil –, e l’avanzata della transizione ecologica aumenterà questo fabbisogno. È dunque urgente rafforzare il riciclo di tali risorse, ma è anche necessario (ri)attivare miniere sul territorio nazionale per assicurare approvvigionamenti sostenibili.
È questa, in sintesi, la posizione espressa ieri dal ministro delle Imprese Adolfo Urso, intervenuto in audizione nella commissione Industria del Senato.
Una posizione coerente con la proposta di regolamento europeo recentemente avanzata dalla Commissione Ue, il Critical raw materials act che individua 34 materie prime critiche (erano solo 14 nel 2011) per l’economia continentale.
Tale proposta prevede che, entro il 2030, almeno il 10% del consumo europeo sia estratto in Europa; almeno il 40% sia lavorato qui e almeno il 15% del consumo provenga da riciclo (col sostegno italiano sulla possibilità di innalzare l’asticella al 20%). Una performance assai lontana da quella attuale, dato che l’Ue così come l’Italia dipendono quasi totalmente dall’importazione.
Ad esempio, l’Ue acquista il 97% del magnesio dalla Cina; le terre rare pesanti, utilizzate nei magneti permanenti, sono raffinate esclusivamente in Cina. Il 63% del cobalto mondiale, utilizzato nelle batterie, è estratto nella Repubblica democratica del Congo, mentre il 60% è raffinato in Cina.
Al contempo, il fabbisogno delle materie prime critiche è «destinato ad aumentare esponenzialmente in quanto strettamente connesso allo sviluppo e alla diffusione delle tecnologie necessarie per il raggiungimento degli obiettivi di decarbonizzazione», come ricorda Urso.
Secondo la Commissione europea, al 2050 la domanda annua di litio per batterie potrebbe aumentare di 89 volte rispetto ai livelli attuali (l’Ue ne estrae solo l’1% del totale globale entro i propri confini), mentre la domanda di terre rare crescerà di sei/sette volte entro il 2050, e quella di gallio utilizzato per la fabbricazione di semiconduttori di 17 volte.
«Il rafforzamento dell’efficienza e della circolarità dei materiali possono attenuare in una certa misura il previsto aumento della domanda, ma non risolvono il problema», osserva il ministro.
In particolare, Urso riporta che «a seconda degli investimenti che saranno effettuati in impianti di riciclo in Italia, nel 2040 il riciclo potrebbe arrivare a soddisfare fino a quasi un terzo (32%) del fabbisogno annuo italiano di materie prime strategiche».
E per il resto? L’unica opzione, insieme a quella di stipulare accordi strategici per l’import con Paesi meglio dotati del nostro in termini di materie prime, sta nell’aprire o riaprire le miniere presenti lungo lo Stivale.
«Pur possedendo sedici delle trentaquattro materie indicate, l’Italia – argomenta Urso – ha una produzione mineraria irrilevante, a fronte di miniere di cobalto, nichel, rame e argento in Piemonte, di terre rare in Sardegna, di litio nel Lazio e di rifiuti minerari abbandonati per circa 70 milioni di metri cubi. Occorre investire e riattivare queste potenzialità, riaprendo le miniere e compiendo uno sforzo in termini di investimenti e recupero di capacità tecnologica».
Mentre non avrebbe senso massimizzare l’estrazione dei pochi combustibili fossili presenti in Italia, tutt’altra questione è agire per garantire l’approvvigionamento necessario alla transizione ecologica, verso un modello di sviluppo più sostenibile di quello attuale.
Nel merito, relativamente alla difesa dell’ambiente e al mantenimento di adeguati standard lavorativi, Urso reputa infatti «necessario denunciare le ipocrisie, in quanto l’apertura di miniere in Italia potrebbe risultare preferibile rispetto all’importazione degli stessi minerali da Paesi che non garantiscono né livelli di sostenibilità né diritti dei lavoratori».
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