Come preannunciato a inizio settembre, si è riunita oggi per la prima volta la Piattaforma nazionale per un nucleare sostenibile (Pnss) lanciata dal ministero dell’Ambiente.

Presieduta dallo stesso ministro Pichetto, la Pnss – i cui componenti non sono stati resi pubblicamente noti – ha visto la partecipazione «dei principali Enti pubblici di ricerca, di esponenti del mondo delle Università, di associazioni scientifiche, di soggetti pubblici operanti nel settore della sicurezza nucleare e del decommissioning, nonché di imprese che hanno già in essere programmi di investimento nel settore nucleare, nella produzione di componenti e impianti e nelle applicazioni mediche nel settore nucleare».

La Pnss sarà coordinata dal ministero col supporto di Enea e Rse, e verrà articolata in gruppi tematici (ricapitolati nel documento allegato, ndr) per definire «in tempi certi» un percorso per la «possibile ripresa dell’utilizzo dell’energia nucleare in Italia» e alle opportunità di crescita della filiera industriale nazionale già operante nel settore.

In particolare, l’obiettivo prioritario della Piattaforma sarà sviluppare «linee guida e una roadmap, con orizzonte 2030 e 2050, per seguire e coordinare gli sviluppi delle nuove tecnologie nucleari nel medio e lungo termine, valutando nel medio termine le possibili ricadute in ambito italiano, in particolare nel settore degli Smr e dei reattori di IV generazione».

Nell’ambito delle tempistiche dettagliate dal ministero, si prevede che la roadmap sia pronta «entro 7 mesi e le linee guida «entro 9 mesi».

Al riguardo il ministro Pichetto afferma che «non si tratta evidentemente di proporre il ricorso in Italia alle centrali nucleari di grande taglia della terza generazione, ma di valutare le nuove tecnologie sicure del nucleare innovativo quali gli Small modular reactor (Smr) e i reattori nucleari di quarta generazione (Amr)».

In entrambi i casi si tratta di opzioni tecnologiche dibattute da alcuni decenni, finora senza successo. Come ricorda Giovanni Battista Zorzoli, docente di Fisica del reattore nucleare già negli anni Sessanta, poi specializzatosi in fonti energetiche rinnovabili, il programma internazionale per lo sviluppo dei reattori di IV generazione è nato su spinta statunitense nel 2002; vent’anni dopo ci sono solo alcuni prototipi in fase di sviluppo in Cina, Francia e Russia.

Lo sviluppo degli Small modular reactor è ancora più problematico: «Parliamo di reattori dei quali si è iniziato a parlare negli anni Ottanta del secolo scorso e attualmente sono in esercizio giusto tre prototipi: uno che non produce elettricità, uno in Russia molto discusso perché installato su una piattaforma galleggiante, mentre il terzo è in Cina e se ne sa molto poco», osserva Zorzoli.

Si parla dunque di tecnologie che, se mai raggiungeranno la possibilità di essere commercializzate, lo faranno con tempistiche incompatibili con l’urgenza di decarbonizzare la nostra economia entro il 2030 (-55% emissioni di gas serra rispetto al 1990, l’Italia è ferma a -19,9%) per poi raggiungere le emissioni nette zero al 2050.

Per questo le associazioni ambientaliste come Legambiente, Wwf, Greenpeace e Kyoto club ritengono sbagliata e insensata la scelta di rilanciare il nucleare in Italia: «Il nucleare di quarta generazione o nei mini-reattori modulari nucleari (Smr), la cui realizzabilità è tutta da dimostrare, ha costi alti, tempi lunghi e non elimina l’annoso problema delle scorie, uno dei principali ostacoli ancora irrisolti del settore. Investire in questa forma di produzione di energia, come contributo alla lotta alla crisi climatica, sarebbe una scelta assolutamente contraddittoria con l’urgenza negli interventi di riduzione delle emissioni climalteranti».

Tornare a sviluppare il nucleare in Italia, peraltro già bocciato due volte tramite referendum nel 1987 e nel 2011, presenta inoltre importanti svantaggi economici. Come riassunto poche settimane fa dal cancelliere tedesco Olaf Scholz, ad oggi «chiunque voglia costruire nuove centrali impiegherebbe 15 anni e dovrebbe spendere dai 15 ai 20 miliardi di euro per unità». Ovvero impiegando tempi e costi esorbitanti rispetto a quelli richiesti dalle fonti rinnovabili.

Per quanto riguarda invece lo sviluppo della fusione nucleare, che porterebbe ad un enorme salto tecnologico rispetto alle centrali a fissione, si parla di ipotesi in campo ormai dagli anni ’50 del secolo scorso; investire ancora nella ricerca e sviluppo può continuare a valere la pena, pur sapendo che anche in questo caso centrali a fusione nucleare potrebbero essere pronte solo dopo il 2050, cioè a percorso di decarbonizzazione concluso.

Nel frattempo, l’unico fronte dove il nucleare italiano sarebbe chiamato ad avanzare rapidamente – ovvero la realizzazione del Deposito nazionale per i rifiuti radioattivi – è fermo.

Si tratta del Deposito che, a valle di un investimento previsto in 1,5 miliardi di euro (mentre a livello europeo la gestione dei rifiuti radioattivi è stata stimata nel 2019 dalla Commissione Ue in 422-566 miliardi di euro), è chiamato a ospitare 78mila mc di rifiuti radioattivi a molto bassa e bassa attività, oltre a 17mila mc a media e alta attività.

L’iter per la sua realizzazione è iniziato nel 2010, durante il Governo Berlusconi IV, ed il completamento è atteso per il 2025. Di fatto però, ad oggi non è stata resa nota neanche la Carta nazionale delle aree idonee; il Governo Meloni si è impegnato ad approvarla «verosimilmente entro il corrente anno», ma una data non c’è.

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