Nonostante il tema dell’economia circolare sia ampiamente entrato a far parte del dibattito pubblico, le risorse consumate a livello globale e nazionale continuano ad aumentare.

L’Unep stima che il consumo di materie prima sia passato dalle 30 miliardi di tonnellate consumate nel mondo nel 1970 alle attuali 106 mld di tonnellate, e prevede che crescerà ancora del 60% entro il 2060.

Anche in Italia la tendenza al ribasso nei consumi di materie prime – registrata a partire dal picco storico raggiunto nel 2006 – si è interrotta, riportandosi ad un livello annuo superiore alle 500 milioni di tonnellate, registrato l’ultima volta nel 2013; dieci anni di progressi cancellati in un colpo.

Più in generale, il reimpiego di materiali riciclati nell’economia è fermo al 7,2% a livello globale, e al 18,7% nel caso italiano. Ovvero, l’81,3% dell’economia italiana non è circolare.

Come mai? Gli elementi che frenano l’economia circolare sono molti – dalle difficoltà di tipo normativo alla mancanza d’incentivi –, ma tra quelli meno studiati c’è l’effetto rebaund (rimbalzo). Ossia quel fenomeno per cui i possibili benefici ambientali derivanti dalla transizione circolare sono in parte o totalmente annullati da un aumento della produzione e dei consumi dovuti a dinamiche di mercato.

«La transizione dall’attuale paradigma economico lineare a quello circolare stenta ad avanzare», spiega il ricercatore dell’Università di Pisa Pierluigi Zerbino, che sul tema ha appena pubblicato uno studio assieme a tre colleghi della Sheffield University Management School.

«La causa di questa inerzia, spesso spiegata con l’aumento dei consumi a livello globale – prosegue Zerbino – è verosimilmente legata al cosiddetto effetto rebound, determinato in primo luogo dai comportamenti di consumo di ciascuno di noi che, di fatto, possono compromettere i vantaggi ambientali derivanti dalla transizione a un’economia circolare».

Per capire meglio è utile tenere a mente come il prezzo e la qualità di un prodotto riciclato, riparato, o di seconda mano (spesso chiamati prodotti circolari) ci influenzino nella vita di tutti i giorni.

«Per esempio, un prezzo basso di un capo di vestiario prodotto con fibre riciclate può spesso portarci ad acquistare più capi di quelli di cui abbiamo realmente bisogno – argomenta Zerbino – Riteniamo di avere un comportamento “green” perché non acquistiamo prodotti nuovi, ma il basso prezzo ci invoglia a chiedere e consumare di più. E consumare di più vuol dire far produrre di più e far inquinare di più. È amaro a dirsi e forse persino frustrante, ma l’effetto rebound di un’economia circolare definisce proprio questo rischio dei prodotti circolari di alimentare e non ridurre la nostra fame di consumo e l’inquinamento ad essa associata».

Certo, questo non è valido in tutti i casi, considerato anche che in alcuni casi riciclato non significa per forza più economico. Serve dunque indagare il tema in modo più approfondito.

«Il problema è che, ad oggi, l’effetto rebound nell’economia circolare è poco noto, difficile da quantificare, e non è stato esaminato a fondo dalla letteratura accademica. Ma, se vogliamo stimarlo e mitigarlo con successo, è fondamentale dedicargli maggiore attenzione», conclude Zerbino.

L’articolo L’effetto rebound che frena l’economia circolare, spiegato dall’Università di Pisa sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.