In attesa che la filiera del tessile diventi virtuosa, con il Regolamento dell’Unione Europea sull’ecodesign, come cittadini e consumatori possiamo fare la nostra parte
Quella maglietta comprata con un comodo click dal divano di casa giace, a pochi mesi dall’acquisto, in una discarica del Kenya, o del Ghana, dove arriva la gran parte dei vestiti usati del mondo ricco, raccolti in balle e venduti a peso. È il destino di tanti indumenti comprati con sufficienza e dismessi dopo averli indossati poche volte. Ad Accra, capitale del Ghana, c’è il più grande mercato di vestiti di seconda mano al mondo, qui arrivano ogni settimana 15 milioni di capi d’abbigliamento. La metà di questi non trova acquirenti e finisce accumulata nelle discariche, con gravi conseguenze per l’ambiente e la salute. Il rapporto di Greenpeace Africa, dal titolo “Fast fashion, slow poison: the toxic crisis in Ghana”, denuncia livelli preoccupanti di idrocarburi cancerogeni, tra cui il benzene, nei lavatoi pubblici di Old Fadama, ad Accra. Anche l’Italia fa la sua parte per ingrossare queste discariche: con quasi 200.000 tonnellate nel 2022, denuncia il dossier, il nostro Paese è il nono esportatore al mondo di abiti usati, terzo in Europa dietro Belgio e Germania.
In Cile, nel deserto di Atacama, arrivano invece gli abiti invenduti nel Nord del mondo. Tutto ciò che i marchi della “moda veloce” producono a basso costo e che resta poche settimane sugli scaffali senza trovare acquirenti per poi far posto a un’altra collezione. Un circolo vizioso ben rappresentato dallo scatto che abbiamo scelto per la copertina di questo mese, tratto dal progetto fotografico “Il deserto vestito” di Mauricio Bustamante. In questo angolo di mondo arrivano ogni anno ben 44 milioni di tonnellate di abiti ancora con il cartellino. Merce invenduta proveniente da Europa, Stati Uniti e Asia.
Emissioni climalteranti, uso eccessivo e inquinamento delle risorse idriche, dispersione di microplastiche, sfruttamento dei lavoratori, rilascio di sostanze tossiche nell’ambiente sono gli impatti più pesanti dell’industria tessile. Cambiare modello, anziché abito, è dunque necessario. La filiera, presto, dovrà confrontarsi con nuove norme, che la obbligheranno alla circolarità. Il nuovo Regolamento europeo sull’ecodesign approvato a maggio dovrebbe infatti favorire la progettazione ecocompatibile di tutti i prodotti immessi sul mercato. Intanto in Italia, nel 2022, è entrato in vigore l’obbligo di raccolta differenziata per i rifiuti tessili a carico dei Comuni. Ma in attesa che la filiera diventi virtuosa, come cittadini e consumatori possiamo comunque fare la nostra parte, seguendo ad esempio i consigli di Tessa Gelisio, che da questo mese ci aiuterà a ridurre il nostro impatto sul pianeta e a “vivere meglio” (così si chiamava la nostra storica rubrica, che con lei riportiamo in queste pagine).
Intanto l’Emilia-Romagna e le Marche sono state colpite, ancora una volta, dagli effetti della crisi climatica. Dopo aver portato danni e morti nell’Europa centrale e orientale, il ciclone Boris ha investito un’area della Penisola che si stava faticosamente riprendendo dagli eventi estremi che avevano colpito le due regioni, rispettivamente, uno e due anni fa. Fra le zone più colpite il ravennate, con oltre duemila sfollati. Al largo delle cui coste sono partite le prime iniezioni di CO2 nei fondali marini con la Carbon capture and storage (Ccs). Una falsa soluzione per mitigare il riscaldamento globale.