Un terzo di quelli globali è destinato a finanziare attività green. Un mercato in forte crescita, nonostante la frenata del parlamento europeo sulla tassonomia verde
Da almeno vent’anni il trend della richiesta di investimenti puliti è in costante accelerazione. È una rivoluzione guidata dai consumatori». Lo sostiene Luca Bonaccorsi di Transport & Environment, la Federazione europea per i trasporti e l’ambiente che insieme a Legambiente, nel gennaio 2020, ha strappato un’importante vittoria su Eni, condannata per greenwashing dall’Antitrust al pagamento della sanzione massima di 5 milioni di euro per le pubblicità ingannevoli sul biodiesel trasmesse tra 2016 e 2019. E che ora sta facendo fronte al tentativo, sempre più pressante, delle lobby delle fossili di screditare il mercato delle auto elettriche, accusato di fornirsi delle materie prime necessarie per alimentare le batterie in miniere sperdute negli angoli più remoti del pianeta, dove lo sfruttamento dei lavoratori è all’ordine del giorno.
I risparmi gestiti dall’industria degli investimenti sostenibili valgono ad oggi 35mila miliardi di dollari, quasi un terzo di quelli globali. Un mercato enorme a cui l’Unione Europea sta provando a porre delle regole, cercando anzitutto di darsi una quadra sulla definizione dei criteri Esg (Environmental, social and governance) e del concetto di sostenibilità.
«Il problema – spiega Bonaccorsi – è che non essendoci regole scritte su cosa sia sostenibile e cosa invece no, la fetta maggiore di questi risparmi è andata a finire a settori come il petrolifero e la chimica, che di sostenibile non hanno nulla. L’Ue da almeno tre anni sta cercando di mettere ordine». Anche se l’ultimo voto sulla tassonomia verde del parlamento europeo è andato in direzione opposta, con gas, nucleare e pratiche di deforestazione inclusi nella lista delle attività sostenibili dal punto di vista ambientale.
In parallelo l’Efrag (European financial reporting advisory), l’ente che in seno alla Commissione Europea si occupa dei principi contabili, sta elaborando nuovi standard per allargare la platea delle aziende obbligate a rilasciare una reportistica di sostenibilità. Un altro passo, già compiuto, prevede che le banche e i fondi di investimento aggreghino i dati ricevuti dalle imprese e, in base a questi, dichiarino in che percentuale sono verdi gli investimenti che propongono.
«Al momento abbiamo una legge che richiede ai fondi tutti i dati sulla sostenibilità – continua Bonaccorsi – Ma se le aziende non trasmettono i loro dati, e se l’Ue non ha ancora deciso cosa è sostenibile e cosa no, questa legge serve a poco. Il risultato è che al consumatore vengono proposti investimenti verdi, ma ci sono pochi modi per poterlo verificare». Con il mercato che si sta trasformando in una sagra delle etichette, in cui è difficile sapere con certezza da dove proviene una merce, quale filiera produttiva ha seguito o quali sono le condizioni lavorative di chi l’ha prodotta.
Per Lorenzo Barucca, responsabile nazionale economia civile di Legambiente che ha siglato insieme a Transport & Environment il progetto Ace (Alliance for a clean and inclusive finance), «occorre costringere l’enorme flusso di denaro privato ad alimentare il più possibile processi virtuosi di economia circolare». «Gli impieghi economici distorti, a causa di una normativa non chiara – sottolinea – causano un rallentamento nel raggiungimento degli obiettivi europei sull’economia circolare e non premiano le imprese virtuose che praticano innovazione con coraggio e coerenza».
Resta aperta, infine, la questione dei controlli. Attualmente l’Unione Europea demanda agli Stati membri l’incarico di individuare le autorità nazionali che devono occuparsi del monitoraggio e di stabilire l’impianto sanzionatorio. In pratica ogni Paese stabilisce da sé il livello di rigidità delle proprie verifiche. Se è vero che l’obiettivo è passare dalla logica binaria del dentro o fuori al vaglio di più livelli di sostenibilità, lo è altrettanto il fatto che non può essere questa la strada per arrivare a normare in modo efficace un mercato che, se lasciato a uno stato semibrado, è destinato a replicare le dinamiche di quei modelli di consumo e sviluppo che l’Europa vuole lasciarsi alle spalle.
Articolo pubblicato su Rifiuti Oggi 2-2022