rifiuti di plastica stanno invadendo anche i luoghi più incontaminati. Su isole come Jeju, in Corea del Sud, gruppi di volontari lavorano ogni giorno per ripulire le spiagge da tonnellate di detriti portati dalle correnti. Ma c’è un dettaglio agghiacciante: gran parte di questa plastica non proviene dalle attività locali, ma arriva da Paesi lontani come Cina, Russia, Egitto e Corea del Nord.

L’impatto della plastica sugli ecosistemi marini è devastante. Ogni volta che vengono raccolte 100 bottiglie, almeno 9 o 10 riportano scritte in lingue straniere, segno che il problema è transnazionale. Questo dimostra che l’inquinamento marino non conosce confini: ciò che viene gettato in un fiume in Asia può finire su una spiaggia deserta dall’altra parte del mondo.

Le operazioni di pulizia non sono una soluzione

Organizzazioni come il Sea Life Trust stanno lanciando un messaggio chiaro: le operazioni di pulizia non dovrebbero essere un motivo di celebrazione, ma un campanello d’allarme. Se ogni giorno volontari devono raccogliere sacchi pieni di plastica, significa che il nostro modello di consumo è insostenibile. La comodità dell’usa e getta ha un prezzo altissimo, pagato da tartarughe, uccelli marini e interi ecosistemi.

Cosa possiamo fare? La soluzione non è solo ripulire, ma prevenire. Servono politiche globali più severe sulla gestione dei rifiuti, un maggiore impegno nel riciclo e una riduzione dell’impiego di plastica monouso. Serve non trasformare paradisi in discariche a cielo aperto.

L’urgenza di agire è sempre più pressante: se anche le isole più remote sono sommerse dalla spazzatura, è chiaro che non esiste più un angolo del pianeta immune dall’inquinamento. Dobbiamo smettere di trattare le operazioni di pulizia come una soluzione, perché non lo sono. Sono un sintomo di un sistema malato. La vera sfida è cambiare le nostre abitudini prima che sia troppo tardi.

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