Roma, 9 luglio 2022. Un incendio che coinvolge diversi autodemolitori in viale Palmiro Togliatti produce una nube nera che sovrasta il quadrante est. Più di 60.000 residenti sono esposti “a concentrazioni elevatissime di diversi composti tossici”, ci confermano gli esiti delle rilevazioni di ARPA Lazio, che hanno registrato concentrazioni di diossine (10,6 pg/m3) e di benzo(a)pirene (2,6 ng/m3) ben superiori ai valori medi annuali, e i risultati del gruppo di ricerca del Dipartimento di Biologia Ambientale dell’Università di Roma La Sapienza che ha analizzato le concentrazioni dei metalli nelle polveri rilasciate dall’incendio.
La novità dello studio condotto presso La Sapienza è duplice: da un lato ha adottato un approccio “nature-based”, dall’altro ha coinvolto direttamente nell’attività di campionamento le persone residenti nell’area interessata dall’incendio, mettendo in campo con la collaborazione dell’associazione A Sud un importante esempio di biomonitoraggio attraverso la “scienza civica”.
Cittadino all’opera nel prepararsi per la raccolta di foglie per lo studio – Foto del Comitato PAC Libero
Che cos’è il biomonitoraggio
Il biomonitoraggio consiste nella misurazione di sostanze chimiche in organismi viventi e, contestualmente o in alternativa, nel monitoraggio degli effetti dell’inquinamento attraverso la valutazione di diversi parametri biologici. Ciò allo scopo di identificare o valutare potenziali esposizioni a determinate sostanze chimiche e i conseguenti effetti pericolosi, citando la definizione fornita dall’Enciclopedia della Tossicologia. Infatti, una qualsiasi sostanza chimica immessa nell’ambiente esterno può creare effetti tossici su umani e non umani, compromettendone la salute.
La letteratura scientifica definisce il monitoraggio biologico come “l’acquisizione di dati su parametri biologici al fine di stabilire una relazione tra lo stato di salute degli organismi e quello dell’ambiente in cui vivono”. Il biomonitoraggio può prendere in esame l’essere umano (biomonitoraggio umano) o altri esseri viventi, animali o vegetali (biomonitoraggio ambientale). Come documenta la rivista scientifica Nature, è stato usato negli anni per arrivare a una migliore conoscenza degli effetti delle sostanze chimiche sugli organismi viventi e, allo stesso tempo, tendere a una maggiore protezione della salute pubblica e dell’ambiente.
Che cos’è il biomonitoraggio tramite soluzioni basate sulla natura
Mentre i metodi convenzionali di monitoraggio sono generalmente basati su approcci chimico-fisici, le tecniche di biomonitoraggio si basano sul presupposto che la natura stessa può contribuire a identificare l’inquinamento nell’ambiente. I metodi di biomonitoraggio fanno dunque parte delle cosiddette “soluzioni basate sulla natura” (Nature-based Solutions – NbS), ossia metodologie che utilizzano processi e strutture naturali per affrontare diverse sfide ambientali. Una recente tesi di laurea magistrale in Monitoraggio e Riqualificazione Ambientale discussa presso il Dipartimento di Biologia ambientale dell’Università di Roma La Sapienza dal dottor Francesco Barisano afferma che le NbS “sono uno strumento utile non solo per effettuare biomonitoraggi ma anche per perseguire altri obiettivi, quali l’incremento della sostenibilità dei sistemi urbani, il recupero dei sistemi degradati, l’attuazione di interventi adattivi e di mitigazione rispetto ai cambiamenti climatici e il miglioramento della gestione del rischio”.
Gli esperti della Smith School of Environment and Enterprise, fondatori della Nature-based Solutions Initiative presso l’Università di Oxford, spiegano che queste metodologie prevedono che si lavori “con la natura, come parte della natura, per affrontare le sfide della società, sostenendo il benessere umano e la biodiversità a livello locale”. La pagina dell’iniziativa ci dice anche che le NbS si ispirano al funzionamento spontaneo della natura, e sono progettate e attuate “nel rispetto dei diritti, dei valori e delle conoscenze delle comunità locali e delle popolazioni indigene”. Un chiarimento metodologico particolarmente interessante quando si tratta di applicare il biomonitoraggio attraverso NbS a questioni che generano conflitti socio-ambientali e quando si mira a coinvolgere in tali processi le comunità colpite. Come possono dunque approcci basati sulla natura coinvolgere attivamente i cittadini nel monitoraggio ambientale, e allo stesso tempo ottenere rapidamente e con costi ridotti dati affidabili sullo stato dell’ambiente?
Il biomonitoraggio degli effetti degli incendi
La tecnica del biomonitoraggio può trovare svariate applicazioni, per esempio come strumento per valutare la qualità dell’acqua, del suolo, o dell’aria. Nella città di Roma è stato recentemente applicato a un fenomeno che desta crescente preoccupazione: il progressivo aumento degli incendi nel contesto urbano, aggravato anche dall’incremento delle temperature. Gli incendi urbani “portano a un notevole aumento delle concentrazioni di particolato atmosferico (PM) e possono avere un elevato impatto sulla salute della popolazione esposta”, afferma un abstract di uno studio che verrà presentato da un gruppo di ricerca del Dipartimento di Biologia Ambientale dell’Università di Roma La Sapienza alla conferenza nazionale “PM 2024” della Società Italiana di Aerosol (IAS) che si terrà a Torino dal 28 al 31 maggio 2024.
Valutare l’esposizione della popolazione alle polveri rilasciate dagli incendi urbani richiede un procedimento complesso. In situazioni di monitoraggio ordinarie, gli esperti posizionerebbero dei campionatori in più siti nell’area di interesse e studierebbero la distribuzione spaziale del particolato (in inglese particulate matter, PM, classificato come cancerogeno di prima classe per l’uomo) e delle sue diverse componenti chimiche. Ma come sappiamo, non è facile prevedere un incendio e non è sempre possibile intervenire tempestivamente con l’installazione di numerosi dispositivi per il campionamento delle polveri. Spesso l’unica alternativa è acquisire campioni, con strumentazioni costose, a diversi giorni dall’evento e solo su pochi punti di misura. Questo approccio però, oltre ad essere molto dispendioso in termini di risorse, non consente di valutare sperimentalmente l’esposizione della popolazione residente nelle diverse aree interessate dall’incendio. Può una soluzione basata su metodi naturali sopperire a queste lacune?
Le foglie di ailanto come indicatori
Dopo l’incendio scatenato da fattori antropici nel 2022 a Roma, la partecipazione attiva dei residenti ha consentito di raccogliere rapidamente e a costi contenuti “un elevato numero di campioni su numerosi punti di misura”, afferma il gruppo di ricerca del Dipartimento di Biologia Ambientale della Sapienza, rappresentato dai professori Lorenzo Massimi e Silvia Canepari, e dalla dottoressa Alice Zara.
Il biomonitoraggio attraverso NbS ha preso in esame una specie arborea invasiva presente in numerose aree del territorio. Residenti e gruppo di ricerca hanno effettuato “il campionamento e l’analisi chimica elementare del particolato depositato sulle lamine fogliari di specie di Ailanthus altissima – comunemente chiamata ailanto – in 24 siti distribuiti omogeneamente nell’area interessata dall’incendio (circa 15 Km2)”. In ciascun sito, i campionamenti sulle foglie di ailanto sono stati effettuati sia nei giorni successivi all’incendio che a un anno di distanza.
I ricercatori ci raccontano dell’analisi effettuata: “le polveri depositate sulle foglie sono state estratte in acqua deionizzata e analizzate per 40 elementi […]. Le foglie sono state poi essiccate e mineralizzate per valutare la concentrazione degli elementi all’interno delle lamine fogliari. Le concentrazioni elementari ottenute ai 24 siti di misura sono state […] interpolate e mappate (attraverso sistemi di geo-localizzazione) al fine di localizzare la loro distribuzione nell’area di studio”, attraverso il ricorso a una metodologia consolidata. Mappare l’impatto di diverse sorgenti emissive nell’area presa in esame attraverso l’utilizzo di metalli come specifici traccianti di sorgente ha permesso di valutare l’esposizione della popolazione residente alle diverse tipologie di polveri emesse dall’incendio.
Processo di preparazione delle foglie di ailanto per l’analisi – Foto dei ricercatori del Dipartimento di Biologia Ambientale dell’Università di Roma La Sapienza
I risultati del biomonitoraggio
L’analisi elementare dei campioni di foglie raccolte ha permesso di individuare metalli traccianti di diverse sorgenti emissive di particolato presenti sul territorio, come il traffico veicolare (ad esempio ferro e manganese), ma anche di diverse componenti di particolato emesse dall’incendio attraverso combustione di biomasse (cesio, litio e rubidio), di freni (antimonio, ferro, manganese e stagno), di copertoni (zinco), e delle carrozzerie (alluminio, antimonio, niobio e stagno) delle automobili colpite.
“Le concentrazioni di questi elementi sono risultate fino a dieci volte superiori rispetto a quelle determinate un anno dopo l’incendio” raccontano Lorenzo Massimi e Alice Zara, dando un’idea dell’esposizione a cui sono stati soggetti abitanti e ambiente locale a causa dell’incendio. La ricerca ha anche dimostrato che le foglie di ailanto sono riuscite ad assorbire in modo efficiente gli elementi del PM maggiormente solubili in acqua e dunque più bioaccessibili (con il termine bioaccessibilità si descrive il potenziale di una sostanza a essere assorbita; infatti, la frazione solubile in acqua degli elementi è notoriamente più disponibile all’assorbimento da parte degli organismi viventi).
La mappatura spaziale delle concentrazioni dei metalli determinate nei campioni vegetali raccolti a seguito dell’incendio e a un anno dall’evento ha permesso di localizzare le aree a maggior impatto per il particolato rilasciato da diversi processi e sorgenti emissive. Il team di ricerca è molto soddisfatto del metodo utilizzato per i rilevamenti e ritiene che questo approccio possa essere replicato per ottenere “una valutazione a basso costo della variabilità spaziale dei traccianti sia di diverse sorgenti emissive tipicamente urbane, come il traffico veicolare e la combustione di biomasse, che di sorgenti occasionali come gli incendi”.
Le concentrazioni di ferro e manganese (metalli traccianti del traffico veicolare) rinvenute sulle foglie nei diversi punti di campionamento a un anno dall’incendio – Fonte: Francesco Barisano, Tesi di Laurea Magistrale in Monitoraggio e Riqualificazione Ambientale – Dipartimento di Biologia ambientale, Università di Roma La Sapienza
Campionamento e analisi
Lorenzo Massimi e Alice Zara ci raccontano che il metodo utilizzato riscuote una crescente attenzione nella comunità scientifica in quanto fornisce la possibilità di effettuare campionamenti più diffusi a costi minori rispetto ai tradizionali metodi di monitoraggio della qualità dell’aria. Utilizzando le foglie di una spessa specie – come, ad esempio, l’ailanto – presente in numerose aree del territorio, è possibile valutare la distribuzione spaziale di alcuni elementi, come ad esempio i metalli pesanti, nelle polveri che si depositano sulle foglie o che vengono assorbite nelle lamine fogliari. Le foglie, dunque, diventano “campionatori” di elementi traccianti di diversi processi e sorgenti emissive delle polveri.
Nell‘area di studio sono state raccolte sette foglie per pianta, per ridurre la possibile variabilità interna al campione, sia a nordovest, sul lato dove è avvenuto l’incendio, che sul lato opposto. Le foglie sono state lavate, essiccate in stufa, omogeneizzate e digerite mediante attacco acido in forno a microonde per la successiva analisi di 40 elementi sia nella frazione insolubile e solubile (maggiormente bioaccessibile) delle polveri depositate sulle foglie che nel totale assorbito nelle lamine fogliari.
I limiti del metodo applicato
Alice Zara e Lorenzo Massimi ci raccontano che l’ailanto è una specie adatta per il biomonitoraggio con approccio NbS, ma non è ideale. Secondo la loro esperienza il leccio, albero sempreverde con cuticola fogliacea cerosa che trattiene maggiormente le sostanze inquinanti, si presta molto meglio al rilevamento di inquinanti. L’ailanto è invece una specie caducifoglie: dunque il biomonitoraggio si può effettuare solo in alcuni periodo dell’anno. Un’altra limitazione di questo tipo di monitoraggio è legata all’influenza di fattori atmosferici come pioggia o vento sulla deposizione di sostanze inquinanti. Infine Lorenzo Massimi, riferendosi alle attività di ricerca sul territorio per il monitoraggio di inquinanti ambientali, nota che “questi temi sono spesso oggetto di grande strumentalizzazione politica e di comunicazione, ciò rende i ricercatori meno inclini a parlare con la stampa e con la società civile”.
Una delle piante di ailanto oggetto dello studio – Foto dei ricercatori del Dipartimento di Biologia Ambientale dell’Università La Sapienza di Roma
Il coinvolgimento delle persone residenti
Ma qual è stato nel concreto il coinvolgimento dei residenti nel biomonitoraggio civico della zona interessata dall’incendio? “Il campionamento è stato fatto dai residenti raccogliendo le foglie di ailanto e inserendole in bustine di plastica ermetica, mentre la preparazione dei campioni e l’analisi chimica è stata effettuata dai ricercatori. I cittadini non potevano entrare nel laboratorio per ragioni di sicurezza e mancanza di copertura assicurativa”, racconta Lorenzo Massimi. Insieme agli abitanti della zona colpita dall’incendio, il gruppo di ricerca ha definito il tipo di intervento e l’area su cui intervenire. Dopo di che c’è stata “una fase di formazione in cui ci si è riuniti per stilare insieme un vademecum con la procedura da seguire per la raccolta dei campioni”. La partecipazione dei residenti – spiega il ricercatore – “è centrale anche per individuare i possibili fattori di allerta dell’inquinamento ambientale”.
Il team di ricerca racconta poi di aver realizzato un’esperienza di monitoraggio del particolato e delle sue componenti chimiche grazie all’aiuto di cittadini volontari nel comune di Terni, in Umbria. “I residenti ospitano i nostri campionatori di particolato e noi andiamo periodicamente da loro per effettuare il cambio filtro. In quelle occasioni discutiamo con le persone e raccogliamo informazioni preziose sulla presenza e sull’impatto di diverse sorgenti emissive di particolato sul territorio”. Ancora più stretta e indispensabile, poi, si rivela la collaborazione in caso di raccolta di campioni biologici umani.
Cittadino all’opera nel raccogliere foglie per lo studio – Foto del Comitato PAC Libero
Un metodo replicabile
Zara e Massimi stanno lavorando a un articolo scientifico con l’obiettivo di descrivere e mettere a disposizione di altre esperienze la metodologia utilizzata. Contestualmente stanno preparando del materiale divulgativo per “rendere questo approccio valido internazionalmente e replicabile, considerati i vantaggi che offre”. Ma quali costi, per esempio in quanto a strumentazione e analisi, devono essere considerati?
Nonostante tale approccio sia meno costoso di altri metodi, ci sono costi sostenuti soprattutto per la preparazione e l’analisi chimica dei campioni, pertanto spesso c’è bisogno di un finanziamento che può arrivare da un progetto di ricerca o, in alcuni casi, anche dalla stessa comunità dei residenti. Nel caso di Roma, il campionamento è stato fatto dai cittadini stessi senza costi di personale, ma la preparazione dei campioni e l’analisi nel laboratorio universitario è costata circa 200 euro a campione (in un laboratorio privato i costi sarebbero stati anche più alti). Un costo che ovviamente aumenta con l’aumentare dei parametri che si vogliono analizzare.
Altre metodologie possibili
Nell’ambito delle tecniche di biomonitoraggio, si può fare ricorso a “bioaccumulatori”, ossia organismi che hanno la caratteristica di assimilare da suolo, acqua o aria quantità misurabili di sostanze chimiche potenzialmente inquinanti e accumularle in specifici organi e tessuti. Ci permettono dunque di fare valutazioni quantitative sull’ecosistema oggetto di studio. La scelta di un “bioindicatore”, invece, si basa sulla sensibilità dell’organismo a certi inquinanti, e consente di ottenere una valutazione piuttosto qualitativa degli effetti dell’inquinamento. I bioindicatori ci consentono di valutare l’effetto che le sostanze inquinanti hanno sugli esseri viventi che popolano l’ecosistema preso in esame, al fine di definire gli interventi da attuare per la salvaguardia di quest’ultimo e delle specie ivi presenti.
Il team di ricerca della Sapienza ha esperienza nell’utilizzo dei licheni, trapiantati in una zona da monitorare, che vengono dunque usati “come bioaccumulatori di inquinanti aerodispersi”. Tramite i licheni è stato possibile valutare gli elementi aerodispersi nella zona dell’acciaieria nella Conca di Terni. Un altro metodo di biomonitoraggio prevede l’utilizzo di sacchetti di muschio (moss bags) per valutare la qualità dell’aria, metodo diffuso sia in Italia sia all’estero. La natura stessa, dunque, ci fornisce le risorse per comprendere quale sia l’impatto degli inquinanti su di essa.
Cittadino all’opera nel prepararsi per la raccolta di foglie per lo studio – Foto del Comitato PAC Libero
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