Nei giorni scorsi è stata diffusa un’indagine di Greenpeace sulla difficoltà di smaltire correttamente le bioplastiche compostabili, e dato il rilevante interesse per il consumatore e il riflesso sulle imprese impegnate nel ciclo dei rifiuti anche greenreport ne ha dato notizia (qui e qui, NDR).

Qui spiegherò perché a mio avviso Greenpeace sbaglia e perché l’errore è dovuto a un pregiudizio negativo che inficia l’imparzialità dell’indagine.

Il pregiudizio sulle bioplastiche è dovuto a una diffidenza sull’origine delle stesse e sull’utilizzo che se ne vorrebbe fare. Ma purtroppo si trascura totalmente l’analisi del modello italiano sia dal punto di vista delle fonti che rispetto alla chiusura del ciclo.

Partiamo dall’inizio le bioplastiche, o meglio le plastiche biodegradabili, si possono produrre sia a partire dai fossili sia a partire da materie prime vegetali rinnovabili e qui incontriamo la prima eccellenza italiana di quella che usavamo chiamare chimica verde e ora passa sotto il nome di bioeconomia nel più ampio ambito dell’economia circolare: la nostra industria (e Novamont in primis) ha scelto di puntare su percentuali sempre maggiori di rinnovabili (anche per i prodotti chimici intermedi – si pensi all’impianto di Bottrighe in Veneto, il primo al mondo che produce bio-butandiolo da biomasse) senza per questo entrare in concorrenza con la vocazione primaria dell’agricoltura che deve restare quella di produrre cibo buono e di qualità. Il beneficio nel percorso di decarbonizzazione dell’economia è evidente per il passaggio da fossili a rinnovabili e non credo sia necessario spiegarlo qui.

Un’eccellenza quella italiana che per una volta il legislatore ha saputo cogliere bene imponendo percentuali sempre maggiori di contenuto da fonti rinnovabili nei manufatti in bioplastica.

Ma Greenpeace, che nelle sue campagne internazionali affronta colossi della chimica che invece promuovono bioplastiche senza modificare le fonti di approvvigionamento che restano fossili, sembra non voler distinguere in questo caso il grano dal loglio.

Inoltre nella diffidenza di Greenpeace pesa anche la paura che si voglia sostituire tutta la plastica usa e getta che tanti danni fa all’ambiente con quella biodegradabile e compostabile. Un obiettivo che quello sì sarebbe insostenibile sia per la quantità di materiale vegetale di cui ci sarebbe bisogno e per il quale inevitabilmente si andrebbe in conflitto con il food, sia perché si perpetuerebbero consumi – l’usa e getta appunto – che sono tipici dell’economia lineare da abbandonare. Ma anche perché un utilizzo così massicciò del bio non ne garantirebbe lo smaltimento corretto.

Ma l’errore di Greenpeace è proprio nell’assunto iniziale e loro stessi ammettono che il modello italiano sul divieto dei sacchetti ha invece funzionato. Forse utile ricordarlo: da quando nel 2007 approvammo l’emendamento che avrebbe poi vietato (dal 2013) la vendita dei sacchetti non bio, il consumo degli shopper si è ridotto del 70%! Confermando la bontà della scelta di allora: riducemmo l’impatto ambientale e promuovemmo forme di consumo più consapevole (l’uso della sporta) e un’industria innovativa che anche adesso sarebbe utilissimo sostenere e promuovere nella transizione ecologica per favorire le riconversioni di tanta industria chimica verso modelli di produzione sostenibili.

Purtroppo i pregiudizi fuorvianti di cui sopra hanno indotto Greenpeace, per confermare la propria teoria predeterminata, a rivolgersi nella loro indagine a qualche professore e associazione di imprese  inceneritoriste per cui qualunque rifiuto è meglio bruciarlo, a qualche estremista alla Gino Bartali “è tutto sbagliato, è tutto da rifare” e soprattutto a quegli impianti più obsoleti, e già noti agli addetti ai lavori, che hanno problemi tecnologici, trascurando invece la stragrande maggioranza degli impianti che non ha difficoltà alcuna a trattare anche le bioplastiche compostabili rigide.

Ecco, “rigide” questo sembra il punto. Infatti più nessuno ormai (ma all’inizio ricordo alti lai anche su questo) si lamenta dei sacchetti compostabili che tranquillamente finiscono la loro vita nell’umido e tornano alla terra quale compost. Invece nell’indagine ci si preoccupa di quelle “rigide”, le stoviglie, i bicchieri, le posate, esentate dal divieto delle plastiche usa e getta previsto dalla normativa europea. Peccato che si sta parlando di 3500 tonnellate su 8 milioni di umido: del tutto irrilevante. E invece non si parla del vero problema che è costituito dalla bassa qualità delle raccolte  differenziate che contaminano le varie frazioni a partire dall’umido che troppo spesso è pieno di plastica (quella tradizionale) che deve essere tolta per non contaminare il compost.

È su questo peraltro che si dovrebbero concentrare Comuni, consorzi, imprese: miglioramento dell’organizzazione della raccolta e nel frattempo adeguamento tecnologico degli impianti che sono rimasti indietro (modifiche peraltro tecnologicamente ed economicamente non così impegnative).

Il nostro Paese, nonostante quello che diffusamente si pensa, presenta tante eccellenze nella gestione dei rifiuti e tra le imprese che se ne occupano, e la filiera dell’umido è proprio una di quella da sostenere nell’innovazione e nel ruolo positivo nell’economia circolare.

Insomma dispiace: ma stavolta Greenpeace ha indicato il dito e non la  luna. Capita, anche ai migliori come in questo caso.

P.s. Messaggio ai consumatori: continuare tranquillamente a conferire le bioplastiche compostabili nell’umido.

di Francesco Ferrante, vicepresidente Kyoto club per greenreport.it

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