Le microplastiche, ovvero frammenti di materiali plastici con dimensioni inferiori a 5 millimetri, sono già ovunque: nella neve fresca in Antartide come nei terreni agricoli europei, nei polmoni come anche nel sangue umano. Non c’è dunque da stupirsi nel constatare che sono entrate all’interno della catena alimentare, fino a giungere nei nostri piatti.
«Si stima che ci siano 24mila miliardi di microplastiche sulla superficie degli oceani del mondo: 500 volte più numerose di tutte le stelle della nostra galassia», spiegano nel merito dal Wwf, osservando – come documentato da una recente ricerca – che «ogni settimana possiamo ingerire oltre 5 grammi di microplastiche (l’equivalente di una carta di credito) attraverso l’aria, acqua, frutta, verdura, pesci e molluschi, soprattutto quelli che si mangiano interi. Le microplastiche sono di conseguenza state ritrovate nelle feci umane (anche quelle dei bambini), nella placenta e recentemente anche nel sangue e nelle aree profonde dei polmoni. L’aspetto più pericoloso delle microplastiche è la loro capacità di assorbire contaminanti ambientali (metalli pesanti, pesticidi, Pcb e molto altro) per poi rilasciarli negli organismi che le ingeriscono, assieme alle sostanze di cui sono esse stesse fatte (ftalati, ritardanti di fiamma)».
Per affrontare il problema, è necessario ridurre il consumo e soprattutto la dispersione delle plastiche nell’ambiente, che non sono affatto tutte uguali tra loro. Nell’ambito delle microplastiche, la suddivisione principale è tra primarie (rilasciate direttamente nell’ambiente sotto forma di piccole particelle, rappresentano il 15-31% di quelle disperse in mare) e secondarie (prodotte dalla degradazione degli oggetti di plastica più grandi, sono il 68-81% di quelle presenti in mare).
Secondo i dati messi in fila dall’Europarlamento il 35% delle microplastiche primarie deriva dal lavaggio di capi sintetici, il 28% dall’abrasione degli pneumatici durante la guida, mentre il 2% è composto dalle microplastiche aggiunte intenzionalmente nei prodotti per la cura del corpo, che l’Italia per prima ha iniziato a bandire sin dal 2019.
Da quest’anno è inoltre entrata in vigore la direttiva Sup – con la relativa interpretazione italiana che si è attirata non poche critiche –, mettendo al bando alcuni prodotti plastici monouso che, se dispersi nell’ambiente, potrebbero successivamente trasformarsi in microplastiche.
Contro l’inquinamento da microplastiche secondarie, è infatti necessario ridurre i tonnellaggi di plastiche immessi al consumo (e prevenire così la successiva produzione di rifiuti), ma anche aumentare il riciclo e il recupero energetico di quelle sul mercato – dotandosi dunque dei necessari impianti industriali sul territorio – per ridurre il più possibile il ricorso alla discarica.
E soprattutto sensibilizzare adeguatamente la cittadinanza sulle reali cause dell’inquinamento marino da plastica: la spazzatura che sta invadendo (anche) il Mediterraneo è quella che viene impunemente gettata all’aria aperta come in discariche abusive da cittadini, turisti ed attività economiche, non quella che viene conferita dove dovrebbe per essere avviata a recupero di materia, di energia o a smaltimento presso impianti controllati e autorizzati a trattarla.
L’articolo Da dove arrivano le microplastiche che mangiamo, senza accorgercene sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.