Nell’ottica di una sostenibilità a lungo termine, il settore dei biocarburanti dovrà limitare sempre più la sua competizione con quello agroalimentare, ricercando alternative sostenibili all’uso di materie prime destinate all’alimentazione umana ed animale. Il dilemma “food versus fuel” è ancora attualmente oggetto di un acceso dibattito di natura socio-economico a livello globale. Un’alternativa potrebbe essere quella di utilizzare solo materie prime non edibili e di conseguenza, il biodiesel potrebbe essere prodotto esclusivamente da oli vegetali non commestibili.

Tuttavia, questo non basta, poiché la crescente richiesta di terreni agricoli per la coltivazione di colture a scopo energetico, come la palma per farne poi il caratteristico olio, ha portato alla conversione di aree ecologicamente importanti, come la foresta pluviale in Indonesia e Malesia – dal 2015 ad oggi, il 90% della deforestazione in Indonesia e Malesia ha dato posto a piantagioni di olio di palma – e di terreni agricoli originariamente destinati alla produzione di cibo. Anche in Africa e Sudamerica le fuel crops stanno minacciando importanti ecosistemi, fenomeno ulteriormente aggravato, nelle aree più povere, dalla sottrazione della terra alle popolazioni indigene.

Con queste premesse, è veramente difficile definire sostenibile un biocarburante ottenuto a un costo ambientale e sociale così elevato. La Commissione europea ha già da tempo riconosciuto come insostenibile la coltivazione di palma da olio,  soia, colza, mais a scopo energetico e prevedendone un graduale abbandono nella produzione di biodiesel. Quindi la sostenibilità a lungo termine dei biocarburanti può essere realizzata sfruttando materie prime alternative che non coinvolgono lo sfruttamento di terreni agricoli o la deforestazione.

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Per un biodiesel sostenibile, oltre che necessario

Ma cos’è il biodiesel? Il biodiesel è una miscela di esteri metilici di acidi grassi (FAMEs) ottenuti dalla reazione di transesterificazione dei trigliceridi (olio vegetale) generalmente con metanolo mediata da catalizzatori basici, acidi e in un alternativa da enzimi (lipasi). Attualmente non esiste una strategia che risponde pienamente alle esigenze richieste in termini di efficienza, economia di processo, versatilità e purezza del biodiesel ottenuto.

Ognuna di queste strategie presenta vantaggi e svantaggi e la loro scelta dipende molto dalla tipologia di olio da trattare. Un problema comune è senza dubbio legato alla formazione inevitabile di glicerolo come co-prodotto (circa il 10% in peso del biodiesel prodotto), poiché intrinseco nella stechiometria della reazione di transesterificazione. Il glicerolo presenta delle caratteristiche chimico-fisiche che lo rendono incompatibile come combustibile e pertanto deve essere rimosso dal biodiesel prodotto, attraverso un trattamento che ha un impatto economico sui costi dell’intero processo di produzione.

In Italia si stima una produzione di oltre 260mila tonnellate di olio vegetale esausto all’anno (dati Conoe 2018), il cui opportuno recupero e riutilizzo nel settore energetico è una fonte di vantaggi economici e ambientali. Gli oli esausti di frittura hanno proprietà diverse rispetto agli oli di origine, poiché l’elevata temperatura dei processi di frittura, insieme all’acqua presente negli alimentu, tende ad accelerare l’idrolisi dei trigliceridi con conseguente formazione di quantità non trascurabili di acidi grassi liberi (FFAs).

Tipicamente, il biodiesel non può essere ottenuto in modo diretto da oli esausti di frittura in impianti tradizionali a catalisi basica in quanto la presenza di FFAs porta alla disattivazione del catalizzatore, alla formazione di saponi e problemi a carico della separazione del prodotto finale. Generalmente, in questi casi, è necessario un processo di pretrattamento a catalisi acida in cui gli FFAs vengono trasformati ad esteri metilici (FAMEs). Solo dopo che il contenuto di FFA  è stato ridotto la trasformazione può proseguire nel tradizionale reattore a catalisi basica. L’impatto economico di questo pre-trattamento ha da sempre dissuaso i produttori di biodiesel dall’uso di questi oli acidi “apparentemente” convenienti.

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Il processo One-Pot

È in questo contesto che nasce il processo One-Pot per la trasformazione diretta degli oli di frittura esausti in biodiesel, senza glicerolo “libero” come sottoprodotto (WO2014122579; PCT/IB2014/058783). Il processo sfrutta la combinazione dell’irraggiamento da microonde, di un catalizzatore acido eterogeno e di MTBE (metil-t-butil etere) commercialmente disponibile, come reagente. Dopo una semplice filtrazione da eventuali residui solidi presenti, gli oli esausti di frittura possono essere trasformati direttamente in biocarburante, mentre l’eccesso di reagente è recuperato mediante distillazione e quindi, riutilizzato.

La sostenibilità del processo di trasformazione è data da vari aspetti: la scelta di un catalizzatore acido eterogeneo, l’efficienza energetica della sorgente a microonde e, soprattutto, dal fatto che il processo, oltre alla completa, efficiente e simultanea trasformazione dei trigliceridi e degli FFAs nei corrispondenti esteri metilici (FAMEs) ovvero biodiesel, coinvolge anche la completa trasformazione del glicerolo in GBTEs, molecole utili nel biocarburante finale. Ciò comporta che queste ultime, a differenza del glicerolo d’origine, non devono essere allontanate. La strategia è stata quella di trasformare il glicerolo in derivati utili nel biocarburante finale, rendendolo quindi più competitivo e sostenibile.

È attualmente in corso un’attività di ingegnerizzazione e prototipazione per uno sviluppo industriale del processo in collaborazione con le società ICS Group S.r.l. e One-Pot S.r.l., con sede rispettivamente ad Augusta e Siracusa.

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