Dopo lunghi anni di latitanza il ministero dell’Ambiente ha pubblicato la Carta nazionale delle aree idonee (Cnai) alla realizzazione del Deposito nazionale dei rifiuti radioattivi.
Finora erano note solo le 67 aree potenzialmente idonee (nella foto), adesso ridotte nella Cnai a 51: di queste, 10 sono in Basilicata (suddivise tra le Province di Matera e Potenza), 4 tra Basilicata e Puglia (Bari, Matera, Taranto), 1 in Puglia (Bari), 21 nel Lazio (tutte in Provincia di Viterbo, in alcuni casi a una ventina di km dalla Toscana), 5 in Piemonte (Alessandria), 8 in Sardegna (Oristano, Sud Sardegna) e 2 in Sicilia (Trapani).
«La Carta è stata elaborata dalla Sogin – ricordano dal ministero – Individua 51 zone i cui requisiti sono stati giudicati in linea con i parametri previsti dalla guida tecnica Isin (Ispettorato nazionale per la sicurezza nucleare e la radioprotezione), che recepisce le normative internazionali per questo tipo di strutture».
Dato che nessuno dei Comuni individuati nelle aree idonee si è però fatto avanti per ospitare il Deposito, mostrando anzi una netta contrarietà alla localizzazione sul proprio territorio, il Governo paradossalmente apre alla possibilità di realizzare l’impianto anche nelle aree che sono state reputate non idonee a valle di questo complesso e lunghissimo iter di valutazione istituzionale.
Entro metà gennaio gli enti territoriali o il ministero della Difesa (per le strutture militari) possono infatti presentare la propria autocandidatura, chiedendo al Mase e alla Sogin di «avviare una rivalutazione del territorio stesso, al fine di verificarne l’eventuale idoneità». Sconfessando così l’intero iter seguito finora, coi relativi criteri di scientificità adottati recependo appunto le normative internazionali in materia.
Si tratta di una strada politicamente comoda da percorrere, in quanto potrebbe evitare al Governo di compiere la scelta migliore per il Paese, demandando la decisione a qualche Comune pur non idoneo ad ospitare il Deposito.
Ciò non toglie l’utilità e la necessità di realizzare l’infrastruttura, per la quale si stima necessario un investimento da 1,5 miliardi di euro: servirà a ospitare 78mila mc di rifiuti radioattivi a molto bassa e bassa attività (la cui radioattività decade a valori trascurabili nell’arco di 300 anni), oltre a 17mila mc a media e alta attività.
Il Deposito non sarà un impianto pericoloso se realizzato coi criteri adeguati, mentre lo sono gli attuali siti di stoccaggio per rifiuti radioattivi presenti in tutta Italia; l’infrastruttura nasce proprio per accrescere la sicurezza nella gestione dei rifiuti provenienti non solo dal decommissioning delle vecchie centrali nucleari italiane, ma anche per quelli che ogni giorno vengono prodotti in special modo in ambito medico e ospedaliero (si pensi alle sostanze radioattive usate per la diagnosi clinica o per le terapie anti tumorali).
Nonostante la necessità e l’importanza del Deposito, che in Francia vede l’analogo Centre de l’Aube realizzato in una zona di produzione dello champagne, in Italia da tutte le aree idonee è arrivata un’alzata di scudi. Il Governo Meloni sembra deciso a non decidere, eppure continua al contempo a propagandare la rinascita dell’energia nucleare nel Paese.
Intervenendo ieri nel corso del “Question time” alla Camera, il ministro Gilberto Pichetto ha infatti confermato la volontà del Governo di «partecipare attivamente, in sede europea e internazionale, a ogni opportuna iniziativa per incentivare lo sviluppo delle nuove tecnologie nucleari destinate alla produzione di energia per scopi civili e ad inserire la fonte nucleare nel ‘mix energetico’ del Paese».
Una strada che sarebbe economicamente insensata, socialmente inaccettabile, anacronistica e dannosa per la lotta alla crisi climatica – anche nel caso dei piccoli reattori modulari (Smr) – in quanto distoglierebbe la già scarsa attenzione dedicata in Italia alle più efficienti fonti di energia rinnovabile.
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