Che moltissimi guardaroba, compresi quelli di ciascuno di noi, siano invasi da abiti spesso inutilizzati è una cosa nota, come noto è il problema di sostenibilità che si porta dietro.
Un piccolo cambiamento di paradigma pare essere in corso, ma la tendenza è ancora tutta da verificare. Oggi, marchi di lusso come Gucci sono entrati nel mercato della ri-vendita di propri prodotti secondhand, e persino Zara, con il suo enorme volume di distribuzione e vendita, è arrivato addirittura a creare una propria piattaforma di ri-vendita. Ma non sono ancora evidenti i dati in termini di riduzione delle emissioni di carbonio che questo sta portando: le emissioni globali della moda sono in aumento perché la produzione non si ferma.
Una risposta interessante a questa domanda arriva dal Tech for Fashion, la prima conferenza sulla moda organizzata da Reaktor, azienda finlandese che si occupa della digitalizzazione e del miglioramento dei processi aziendali, tenutasi lo scorso giugno ad Amsterdam. È proprio in questa sede che, Olof Hoverfält, Strategy & Business Design di Reaktor, espone, ad una platea composta dai grandi marchi internazionali come Adidas, Highsnobiety, H&M, Timberland, Ikea e Zalando, i risultati ottenuti dal monitoraggio del suo guardaroba (e non solo) attraverso un sito web. Un vero e proprio “diario” quotidiano dall’interno degli armadi.
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Tenere sotto controllo il proprio armadio, grazie ad un sito web
Hoverfält ha infatti creato un semplicissimo sito web in cui ciascuno può inserire e monitorare gli acquisti di abiti e scarpe fatti durante l’anno, aggiornando quotidianamente i dati con la quantità di roba che arriva nei nostri armadi, il numero di giorni in cui questi abiti vengono indossati, la qualità e il costo deli singoli pezzi. Partito come esperimento fatto in autonomia circa due anni fa, oggi https://wardrobediary.io/, questa comunità virtuale che monitora la personale quantità di abiti, è composta da 800 utenti per circa 30mila capi di abbigliamento. Attraverso un semplice link, chiunque può tenere traccia del costo effettivo e dell’impatto ambientale delle proprie scelte sul vestire, e contribuire così al pool di dati. Ovviamente ci sono regole ben precise, e un utente deve monitorare per almeno un anno il proprio guardaroba prima che i dati vengano pubblicati e messi a confronto con quelli degli altri utenti.
Carta d’identità di un guardaroba
Sulla base dei dati degli 800 utenti ad oggi registrati – per lo più provenienti dai paesi occidentali, con una distinzione tra uomini e donne – il guardaroba medio ha 184 articoli tra cui calzini e biancheria intima. Il valore stimato è di circa 8.000 euro. Ovviamente si tratta di valori medi, e si va da piccoli armadi con solo 80 capi fino ad oltre 600.
I dati assumono un valore rispetto al costo di produzione, al costo reale sostenuto da chi compra, e il reale utilizzo che ne facciamo. Gli articoli utilizzati in modo “normale”, diciamo fino a 50 volte l’anno, sono circa il 35%, in casi virtuosi si arriva al 50%. Quelli indossati più spesso, diciamo settimanalmente per lunghi periodi, sono tra il 5 e 10% che considerando il totale è davvero una percentuale irrisoria. E il resto?
Secondo i dati forniti dall’armadio virtuale di Hoverfält, il 70% degli indumenti vengono utilizzati quattro volte o meno in un anno. “Oltre la metà dei nostri guardaroba è fortemente sottoutilizzata”, ha affermato il responsabile di Reaktor.
Un monitoraggio simile potrebbe offrire ai marchi alcune indicazioni su quanto produrre per essere veramente sostenibili piuttosto che produrre eccessivamente. E qui entrano in gioco i vari e-commerce come Vinted che danno la possibilità a chiunque di poter far rivivere i propri abiti inutilizzati. Parliamo di indumenti e capi spesso nuovi o quasi, utilizzati magari solo in qualche occasione.
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Il potenziale del monitoraggio dei guardaroba
Questo diario del guardaroba potrebbe mettere le aziende di fronte alle reali esigenze degli utenti. Oggi nessuno si preoccupa del numero di capi prodotti e non utilizzati o non utilizzati a sufficienza. Dalla relazione, quello che viene suggerito in termini di innovazione, sono dei veri e propri e-commerce dell’usato per le principali aziende del mondo. Non quindi una sovraproduzione, ma un riutilizzo di ciò che viene prodotto e potrebbe tornare sul mercato anche come materia prima/seconda, garantendo flussi di cassa tanto indispensabili per le aziende.
Lotta Kopra, consulente senior in sostenibilità ed ex CCO della società finlandese di materiali sostenibili Spinnova, ha dichiarato: “Nessuno di noi ha davvero bisogno di nuovi vestiti: è eticamente giusto che i marchi ci convincano ad acquistare quel nuovo paio di scarpe?”.
E aggiunge: “Se voglio comprare qualcosa di nuovo dovrei almeno vendere due o tre capi del mio guardaroba a qualcun altro che possa goderseli. Quanto più la tecnologia facilita tutto ciò, tanto più i brand potranno trovare modi per essere coinvolti”. Il limite evidente a tutto il ragionamento è l’idea di poter scegliere tra più capi, mentre sarebbe assolutamente sufficiente e sensato ridurre di otre 2/3 l’intero guardaroba in nostro possesso.
Esempi virtuosi in tal senso esistono già, e sono in continua crescita da un punto di vista di fatturato, oltre che di sostenibilità. È il caso di On, azienda svizzera produttrice di scarpe: grazie al programma Cyclon, un programma di abbonamento circolare, i consumatori possono rispedire le scarpe ogni sei mesi per la sostituzione. Benjamin Gallais, il product manager, conferma: “gli articoli usurati vengono utilizzati come materia prima per nuovi prodotti.
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