Si stima che negli oceani si siano da 50 trilioni a 75 trilioni di particelle di plastica e che ogni anno se ne aggiungono altri da 8 a 10 milioni di tonnellate, con impatti catastrofici sulla fauna marina e sugli ecosistemi e perdite economiche ra i 500 miliardi e i 2,5 trilioni di dollari l’anno. Ma i costi non si fermano al litorale: Deloitte stima che nel solo Nord America l’inquinamento da plastica nei fiumi e nei torrenti costi fino a 600 milioni di dollari all’anno. Mentre i governi di tutto il mondo si preparano al summit che si terrà in Uruguay per negoziare un nuovo Global Plastic Treaty, il nuovo studio ‘The transport and fate of microplastic fibres in the Antarctic: The role of multiple global processes”, pubblicato su Frontiers in Marine Science da un team di ricercatori britannici (Nekton Foundation e università di Oxford e dello Staffordshire) e sudafricani (università di Cape Town e Nelson Mandela – Pretoria) ha rivelato la scoperta di fibre di plastica sintetiche nell’aria, nell’acqua di mare, nei sedimenti e nel ghiaccio marino campionati nel Mare di Weddell in Antartide. I dati sono stati raccolti dalla spedizione di ricerca per ritrovare l’Endurance la nave dell’esploratore antartico Sir Ernest Shackleton ritrovata il 9 marzo a una profondità di 3.008 metri nel Mare di Weddell, a circa 6 chilometri da dove si era inabissata nel 1915.
All’università di Oxford dicono che «In tutti i campioni sono stati trovati poliesteri fibrosi, principalmente di origine tessile. La maggior parte delle fibre microplastiche identificate sono state trovate nei campioni di aria antartica, rivelando che animali e uccelli marini antartici potrebbero respirarle».
Carroll Muffett, presidente del Center for International Environmental Law, spiega sul Boston Globe: «Poiché il 99% di quel che è dentro la plastica è costituito da combustibili fossili, le materie plastiche sono essenzialmente combustibili fossili sotto un’altra forma. Mentre la domanda di petrolio e gas nei settori dell’energia e dei trasporti diminuisce, i produttori di combustibili fossili stanno guardando alla plastica come un modo per continuare a trarre profitto dai combustibili fossili. L’International energy agency prevede che entro il 2050 più della metà di tutto il petrolio e il gas sarà utilizzato per produrre plastica e prodotti petrolchimici. Questo ha enormi impatti sul clima. Continuando nella nostra traiettoria attuale, la produzione, l’uso e lo smaltimento della plastica potrebbero emettere 56 gigatonnellate di CO2 entro il 2050: equivalente al 13% dell’intero budget di carbonio rimanente della terra per mantenere il riscaldamento al di sotto della soglia critica di 1,5 gradi Celsius. Questi impatti sarebbero aggravati se l’inquinamento da plastica vanificasse i pozzi naturali di carbonio negli oceani e nel suolo. Per questo, il trattato sulla plastica viene salutato come “l’accordo sul clima più importante” dall’Accordo di Parigi».
Una delle autrici dello studio, la biologa Lucy Woodall dell’università di Oxford e ricercatrice principale di Nekton, conferma che «La questione delle fibre microplastiche è anche un problema atmosferico che raggiunge anche gli ultimi ambienti incontaminati rimasti sul nostro pianeta. Le fibre sintetiche sono la forma più diffusa di inquinamento da microplastica a livello globale e affrontare questo problema deve essere al centro dei negoziati sul trattato sulla plastica». Nel 2014 la Woodall – allora al The Natural History Museum London – è stata la principale autrice dello studio “The deep sea is a major sink for microplastic debris”, pubblicato su Royal Society Open Science da un team di ricercatori britannici, scozzesi e catalani che ha rivelato la prevalenza della plastica nelle profondità marine.
Il nuovo studio ha effettuato un’analisi di modellazione delle traiettorie dell’aria che ha rivelato che «Le aree con un numero maggiore di fibre erano associate ai venti provenienti dal sud del Sud America» e rivela che «La Corrente circumpolare antartica e il fronte polare associato non agiscono, come si pensava in precedenza, come una barriera impenetrabile che avrebbe impedito alle microplastiche di penentrare nella regione antartica».
La co-autrice principale della ricerca Nuria Rico Seijo di Nekton, spiega che «Le correnti oceaniche e i venti sono i vettori dell’inquinamento da plastica che viaggia in tutto il mondo e persino negli angoli più remoti del pianeta. La natura transfrontaliera dell’inquinamento da microplastiche fornisce ulteriori prove dell’urgenza e dell’importanza di un forte trattato internazionale sull’inquinamento da plastica».
Il team anglo-sudafricano ha anche scoperto che «La concentrazione di microplastiche è molto più alta nel ghiaccio marino rispetto agli altri tipi di campioni», il che indica che le microplastiche restano intrappolate ogni anno durante la creazione dello strato di ghiaccio marino.
Il pirncipale autore dello studio, Mánus Cunningham, biologo di Oxford e di Nekton, ricorda che «Il ghiaccio marino è mobile, può percorrere grandi distanze e raggiungere le banchise di ghiaccio permanenti del continente antartico, dove può rimanere intrappolato a tempo indeterminato con i suoi inquinanti microplastici che ha raccolto. Riteniamo che anche l’acquisizione di microplastiche nel ghiaccio marino pluriennale, combinata con i suoi cambiamenti stagionali, possa essere considerata un pozzo temporaneo e uno dei principali trasportatori di microplastiche all’interno della regione antartica».
Inoltre, durante la Weddell Sea Expedition sono state condotte ricerche approfondite su campioni di sedimenti recuperati a profondità comprese tra 323 e 530 metri sotto la superficie del mare e la Woodall aggiunge: «La nostra scoperta di microplastiche nei campioni di sedimenti del fondale marino ha rivelato prove di un deposito di plastica nelle profondità delle acque antartiche. Ancora una volta abbiamo visto che l’inquinamento da plastica viene trasportato a grandi distanze dal vento, dal ghiaccio e dalle correnti marine. I risultati della nostra ricerca dimostrano collettivamente l’importanza vitale di ridurre l’inquinamento da plastica a livello globale».
Per analizzare i campioni utilizzati nello studio, gli esperti scientifici e forensi d britannici e sudafricani hanno utilizzato una serie di metodi investigativi che includono tecnologie ottiche (microscopia a luce polarizzata), chimiche (spettrometria Raman) e persino un nastro adesivo “crime scene”per identificare il tipo di polimero. L’analisi di modellazione ha utilizzato l’analisi Mass Back Trajectory.
Secondo il team di ricerca, «I risultati aggiungono maggiore urgenza a un trattato vincolante e concordato a livello globale per impedire alle microplastiche di entrare nell’ambiente, in particolare negli oceani» e. in vista delle discussioni sul Global Plastic Treaty , invitano i responsabili politici a: «Ridurre l’inquinamento e la produzione di plastica a livello globale, creando un solido trattato globale sulla plastica che si basi su iniziative nazionali e regionali; Allineare le azioni di riduzione della plastica con obiettivi naturali e sociali per ottenere molteplici risultati positivi per la società; Consentire alle comunità locali di co-sviluppare e utilizzare programmi che supportino soluzioni per l’intero ciclo di vita per la gestione dei rifiuti di plastica. Anche le persone interessate possono fare la loro parte adottando semplici abitudini di vita per ridurre l’inquinamento da microfibre sintetiche».
Ma, soprattutto dopo il sostanziale fallimento della COP27 Unfccc di Sharm el-Sheikh, la Muffett è molto scettica: «Il livello, la portata e la diversità di questi impatti spiegano perché i negoziatori per il nuovo trattato sulla plastica sono incaricati di affrontare non solo i rifiuti di plastica, ma l’intero ciclo di vita della plastica, compresa la produzione che determina l’inquinamento da plastica in tutte le sue forme, e perché tale mandato richiede impegni vincolanti, non solo volontari. In parole povere, il mondo non può riciclare per uscire dalla crisi della plastica (…) Non avendo imparato la lezione da 30 anni di negoziati sul clima falliti, gli Stati Uniti stanno promuovendo attivamente l’Accordo di Parigi come modello per i negoziati sulla plastica. Piuttosto che cercare un’azione ambiziosa per affrontare la produzione di plastica, i negoziatori statunitensi chiedono impegni volontari, una maggiore attenzione al riciclaggio e un approccio che metta i produttori di plastica al tavolo dei negoziati con i Paesi e le comunità afflitte dall’inquinamento da plastica. Stanno anche guidando una coalizione di Paesi che cercano di abbassare l’ambizione per il trattato sulla plastica. Questo approccio ha fallito nella lotta contro il cambiamento climatico causato dai combustibili fossili. E le persone in tutto il mondo ne vivono le conseguenze che stanno accelerando (…) I negoziatori dovrebbero abbandonare la fiducia mal riposta nell’industria dei combustibili fossili e della plastica che dovrebbe aiutare a risolvere i problemi che i suoi prodotti creano e i suoi profitti richiedono. Il mondo ha perso questa opportunità ai colloqui sul clima. Non dovrebbe fallire di nuovo sulla plastica».
L’articolo Fibre sintetiche ovunque in Antartide: il continente “incontaminato” è un pozzo per l’inquinamento da plastica (VIDEO) sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.