“Licence to greenwash”. Si chiama così l’ultimo report redatto da Changing Markets Foundation sull’impatto dei numerosi schemi volontari di certificazione, etichette di sostenibilità e iniziative volontarie multi-stakeholder, di cui il settore della moda è letteralmente invaso.

Per i brand, questi schemi hanno un duplice scopo. Da un lato, rappresentano un tentativo di muoversi verso una produzione più sostenibile ma, dall’altro, stanno consentendo la proliferazione del greenwashing su larga scala.

Industria della moda: una tendenza insostenibile

L’attuale sviluppo dell’industria della moda moderna è allarmante. Come si legge nel report, negli ultimi 20 anni, il numero di capi acquistati per consumatore è più che raddoppiato e si prevede che il consumo complessivo di abbigliamento aumenterà dai 62 milioni di tonnellate di oggi ai 102 milioni di tonnellate, entro il 2030. Allo stesso tempo, l’utilizzo dei capi è diminuito di quasi il 40 per cento negli ultimi 15 anni.

Queste tendenze sono dettate dalla sempre più forte dipendenza del settore dalle fibre sintetiche a basso costo, che ora rappresentano oltre i due terzi di tutti i materiali utilizzati e hanno consentito una crescita esponenziale del consumo di abbigliamento low cost nel corso degli ultimi due decenni.

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Autoregolamentazione: cortina di fumo per le aziende della moda

Degli oltre 100 schemi di certificazione di sostenibilità in uso nell’industria tessile e elencati nell’Ecolabel Index, il rapporto di Changing Markets Foundation fornisce un’analisi qualitativa sui più noti con un focus sui temi della circolarità, sovrapproduzione, gestione del fine vita ed eliminazione di sostanze tossiche.

Delle dieci iniziative analizzate, diverse sono etichette di certificazione (bluesign, Cradle to Cradle (C2C), EU Ecolabel, OEKO-TEX e il Global Recycled Standard and Recycled Claim Standard di Textile Exchange), altre sono iniziative multi-stakeholder (la Ellen MacArthur Foundation (EMF), The Microfibre Consortium (TMC) e ZDHC) e alte ancora forniscono una serie di strumenti di autovalutazione (Higg Index e WRAP). Ciò che questi schemi hanno in comune è che sono tutti volontari e godono di alti livelli di adesione nel settore.

Schemi incompleti: dipendenza dai combustibili fossile e sovrapproduzione non vengono affrontati

La maggior parte non stabilisce tempistiche e requisiti rigorosi e progressivi, fornendo invece moduli diversi con requisiti diversi. “La maggior parte delle iniziative, in particolare C2C e l’Higg Materials Sustainability Index – si legge nel report – si concentra in maniera apparentemente arbitraria solo su alcuni aspetti delle fasi del ciclo di vita del prodotto“.

Ciò consente agli schemi di modellare una determinata visione di sostenibilità che non riflette la realtà ed implica che un brand debba spesso utilizzare diverse etichette ed essere firmatario di diverse iniziative, creando un mosaico di certificazioni e iniziative nelle quali le questioni sistemiche della cosiddetta fast fashion, dalla dipendenza dai combustibili fossili alla sovrapproduzione, non vengono affrontate, “consentendo inoltre alle aziende di tenere i loro scheletri nell’armadio e distrarre i consumatori dal più ampio impatto ambientale del settore”.

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Greenwashing: mancanza di responsabilità, trasparenza e indipendenza

Il report identifica anche una preoccupante mancanza di responsabilità e indipendenza tra le iniziative che offrono l’etichettatura o la certificazione. Si riscontra poca o nessuna spinta al continuo miglioramento (con poche eccezioni, come le linee guida per la riprogettazione dei jeans di EMF) e nessuna revisione frequente degli standard.

“La maggior parte degli schemi – si legge ancora nel report – non è indipendente. Essendo iniziative volontarie, sono potenzialmente soggette ad interferenze da parte dei marchi che finanziano il sistema o che sono altrimenti coinvolti nelle strutture di governo”.

Anche la responsabilità è gravemente compromessa in questo modo, con scarsi incentivi per programmi atti a denunciare la mancanza di conformità da parte dei membri paganti e dei marchi. E dunque il greenwashing sulla reputazione aziendale, rappresenta un enorme ritorno sull’investimento: un vantaggio per tutti, iniziative e membri.

La trasparenza è l’altro punto debole di tutte le iniziative analizzate; infatti, in alcuni dei casi analizzati, questi schemi funzionano come una scatola nera, con nessun controllo esterno.

Alcuni schemi, come C2C e l’indice di Higg, sembrano comunicare attraverso un bombardamento di informazioni al pubblico, senza la reale possibilità di contestarle. “Pagine piene di retorica e di parole vuote che nascondono una mancanza di accessibilità al controllo e il necessario livello di dettaglio. – si legge nel report – Ad esempio, nelle iniziative WRAP e ZDHC con reportistica aggregata, è impossibile vedere le prestazioni delle singole società e quindi tenere conto dei risultati”.

Alcuni schemi hanno dimostrato progressi in aree limitate, come nella gestione delle sostanze chimiche. Il report lo riscontra in certificazioni come bluesign e OEKO-TEX che, tuttavia, non apportano una trasformazione sistemica, ma unicamente sulla gestione chimica.

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Greenwashing e moda “fossile”: serve legislazione vincolante

“È chiaro che stiamo raggiungendo il limite di ciò che si può fare senza una legislazione. – riporta ancora la ricerca – Questo approccio volontario fondamentalmente non è riuscito a migliorare le prestazioni e a rafforzare la sostenibilità del settore. Negli ultimi 20 anni, mentre questi schemi sono proliferati, l’industria della moda è diventata una delle più inquinanti e dispendiose”.

Tutti gli schemi analizzati, non solo lasciano a desiderare per ciò che riguarda il livello di cambiamento prospettato, ma stanno anche aiutando a cementare la dipendenza del settore dai combustibili fossili. Lo conferma il report secondo cui, schemi e iniziative aggirano il tema delle fibre sintetiche, citando fibre a base di plastica o la necessità di ridurre al minimo la dipendenza da risorse. Nei casi più critici, tra quelli analizzati, come ad esempio nell’indice Higg ed elementi di WRAP, i sintetici vengono presentati come la scelta migliore dal punto di vista ambientale, alimentando il problema che affermano di risolvere.

L’analisi rivela, inoltre, che gli schemi hanno poco da dire sulla fast fashion e la sovrapproduzione e ignorano come il modello di business prevalente del settore sia alla base del “disastro” ambientale in atto. Infine, mentre alcuni schemi stanno iniziando ad affrontare problemi relativi al fine vita dei prodotti, gran parte di questi fanno retorica invece di proporre azioni e pochissimi spiegano o affrontano il problema relativo alle fibre sintetiche che rimarranno nell’ambiente per secoli.

Licenza per il greenwashing: distrazione come tattica principale

I rivenditori e i marchi di moda puntano a promuovere la loro adesione a iniziative e certificazioni volontarie per posizionarsi come leader verso un cambiamento sostenibile.

Il report studia in che modo l’adesione dei brand agli schemi fornisce loro l’opportunità di “vantarsi” dei propri “progressi” attraverso web, social media e stampa. In altre parole, secondo il report, la distrazione è la tattica principale per cui vengono utilizzate la certificazione e le iniziative volontarie.

Inoltre, la mera esistenza di queste iniziative sta facendo deragliare la possibilità di una reale trasformazione, creando l’illusione di un’azione progressiva nel settore e rallentando qualsiasi tentativo di introdurre una legislazione significativa. I risultati evidenziano dunque che la maggior parte degli schemi rappresentano una forma altamente sofisticata di greenwashing poiché pochi hanno il tempo o la propensione a guardare oltre una certificazione.

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Regolamentazione: “L’arsenale del greenwashing deve essere sradicato o riformato con urgenza”

“In questa fase – si legge ancora nel report – una regolamentazione efficace rappresenta il chiaro percorso da seguire. I prodotti sostenibili dovrebbero rappresentare la norma, non l’eccezione, e l’unico modo per ottenerlo è caricare l’onere della prova sulle aziende, attraverso il rispetto delle normative, piuttosto che sul cliente a scegliere l’opzione “più sostenibile”. L’arsenale del greenwashing deve essere sradicato o riformato con urgenza. È fondamentale che governi e brand smettano di supportare schemi privi di ambizione e riconoscano che certificazioni e impegni volontari hanno risultati scarsi e sono inadatti a mettere il settore della moda su una traiettoria più sostenibile.

Le soluzioni

L’analisi suggerisce, dunque, le seguenti soluzioni da adottare.

Un forte schema EPR (responsabilità estesa del produttore) con tariffe e obiettivi eco-modulati che coprano la raccolta, la preparazione, il riutilizzo e riciclaggio closed loop; una tassa sulle fibre plastiche vergini; regole rigorose per affrontare l’inquinamento da microfibre nella fase di progettazione del prodotto e divieti sulle sostanze chimiche problematiche; obbligo per le imprese ad adottare una piena trasparenza della filiera.

Per quanto riguarda gli schemi di certificazione, tutti tranne i più ambiziosi e completi, dovrebbero essere aboliti. Quei regimi con margini di miglioramento devono essere riformati in via prioritaria con un focus su indipendenza, trasparenza, separazione dei poteri, approccio olistico, verifica, ambizione, prevenzione di false soluzioni.

Per quanto concerne brand e rivenditori, l’impegno dovrebbe essere rivolto verso una migliore comunicazione sui vantaggi degli schemi di certificazione privi di greenwashing, garantendo che le affermazioni green siano veritiere e accurate.

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