In Italia il 95% della plastica da raccolta differenziata è costituita da imballaggi ma, come documenta il Programma nazionale per la gestione dei rifiuti (Pngr) proposto dal Governo, si stima che solo il 41,1% degli imballaggi in plastica venga effettivamente avviato a riciclo.
«Una quota consistente del rifiuto prodotto dalla selezione è costituita da plasmix (oltre il 40%), attualmente destinato a smaltimento o a recupero di energia». Il plasmix è composto da imballaggi misti (né bottiglie né flaconi) di plastiche eterogenee, difficili quando non impossibili da riciclare meccanicamente – ci sono eccezioni, come la Revet di Pontedera, in grado di riciclare la componente poliolefinica del plasmix –, che in fase di selezione diventa materiale da bruciare o da smaltire in discarica.
Un empasse che è possibile superare intervenendo in primis a monte della catena produttiva, evitando imballaggi non essenziali e progettando il resto con criteri di ecodesign per favorirne il riciclo, e a valle dotandoci di nuove tecnologie per recuperare più materia possibile da queste plastiche.
Non a caso il Pngr pone l’accento sull’utilità di «sviluppare e realizzare impianti con nuove tecnologie di riciclaggio delle frazioni di scarto (ad esempio, mediante processi di riciclaggio chimico per le frazioni non riciclabili meccanicamente e quindi destinate a discarica o termovalorizzazione)».
Un approccio cui ormai guardano con interesse non solo le istituzioni pubbliche ma anche le imprese, come le 400 aziende attive nel comparto dei beni di consumo riunite nel Consumer goods forum (Cgf) – insieme rappresentano un fatturato annuo da 4,6 trilioni di euro, oltre a occupare direttamente 10 mln di persone – che hanno promosso uno studio Lca sul tema, mostrando che abbinare il riciclo chimico della plastica a quello meccanico tutela il clima molto più che ricorrere alla termovalorizzazione delle plastiche non riciclabili meccanicamente (ad esempio le pellicole flessibili in PE/PP).
«È fondamentale considerare tutti i potenziali impatti ambientali lungo il ciclo di vita dei sistemi di produzione e consumo, quando si valutano tecnologie come il riciclo chimico della plastica», spiega nel merito Llorenç Milà i Canals, alla guida del Life cycle initiative secretariat del Programma Onu per l’ambiente (Unep).
Lo studio Lca in questione è stato condotto da Sphera e revisionato da esperti Unep, Eunomia e Northwestern University: in un’analisi del ciclo di vita pensata per il contesto europeo, si incentra sull’impatto climatico della plastica. Da una parte quella prodotta a partire da fonti fossili e incenerita fine vita, dall’altra la plastica prodotta tramite riciclo chimico e a sua volta riciclabile meccanicamente una volta giunta alla fase di post-consumo.
Il risultato lascia pochi dubbi: in ottica Lca, il riciclo chimico permette di evitare il 43% delle emissioni rispetto all’incenerimento.
«Riconoscendo che la riduzione e il riutilizzo degli imballaggi dovrebbero avere la priorità e riconoscendo i limiti della tecnologia, il documento propone la posizione delle industrie sul ruolo che la pirolisi potrebbe svolgere nella transizione verso un’economia circolare per la plastica, e quali principi chiave e condizioni al contorno dovrebbe rispettare», commenta Sander Defruyt della Ellen MacArthur Foundation.
Tra le varie possibili tecnologie di riciclo chimico per i rifiuti plastici (depolimerizzazione, pirolisi e gassificazione), lo studio Lca si concentra infatti sulla pirolisi, una tecnologia dove il plasmix viene riscaldato a temperature oltre i 500°C in un ambiente senza ossigeno, decomponendo i polimeri in un “olio pirolitico” simile alla nafta, da cui poter ottenere nuove plastiche.
Ciò non significa però che le altre soluzioni tecnologiche non siano interessanti, anzi: sempre in ottica Lca, tramite gassificazione di Css e plasmix (un processo ad alta temperatura ma senza combustione, dove il reagente è ossigeno puro, in cui i rifiuti vengono convertiti chimicamente in un gas di sintesi ricco di idrogeno e carbonio) si possono ridurre le emissioni di CO2 in atmosfera fino al -90%, rispetto a bruciare gli stessi rifiuti in un termovalorizzatore.
«Ci sono molti componenti necessari per ottenere un futuro più positivo per la plastica – conclude Ignacio Gavilan, direttore Sostenibilità per The Consumer Goods Forum – Il nostro obiettivo deve essere ridurre la dipendenza dalla plastica e migliorare il design degli imballaggi, limitando l’uso di materiali problematici e gli imballaggi in eccesso. Ma dove gli imballaggi in plastica non possono essere eliminati, riutilizzati o riciclati con altri metodi, il riciclo chimico ha un ruolo nell’economia circolare. Il riciclaggio chimico prende la plastica che non può essere riciclata meccanicamente e la trasforma in materiali che possono essere utilizzati per produrre nuova plastica. Usato nel modo giusto, come parte di un approccio olistico, il riciclaggio chimico può contribuire a un mondo in cui nessuna plastica finisce dispersa nell’ambiente».
L’articolo Il riciclo chimico della plastica tutela il clima molto più degli inceneritori sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.