L’economia circolare italiana sta faticosamente continuando a crescere, ma non abbastanza da poter rispondere con efficacia alle molteplici crisi cui l’Italia è chiamata a far fronte, da quella climatica alla cronica dipendenza dall’estero per l’import di materie prime.
«Le nostre economie sono fragili perché per aspetti strategici dipendono da materie prime localizzate in larga parte in un ristretto gruppo di Paesi – spiega Edo Ronchi presentando il IV Rapporto sull’economia circolare in Italia, realizzato dal Circular economy network e pubblicato oggi – È un nodo che rischia non solo di soffocare la ripresa ma di destabilizzare l’intera economia con una spirale inflattiva. Ed è qui che l’economia circolare può fare la differenza, trovando all’interno del Paese le risorse che è sempre più costoso importare».
Il gap da chiudere non è da poco. Secondo gli ultimi dati Eurostat, nel 2020 sono state consumate poco più di 5,9 Gt di materiali in Europa (13 t pro capite) e 444 Mt in Italia (7,4 t/ab), in larga parte risorse naturali importate dall’estero, come confermano del resto i flussi di materia analizzati dall’Istat; nel 2021 le importazioni nette, date dalla differenza tra importazioni e esportazioni, arrivano a pesare 161 Mt.
Per un Paese manifatturiero come l’Italia, la carenza di materie prime è un problema storico, che pone in primo piano la necessità dell’efficienza. Se in Europa per ogni kg di risorse materiali consumate vengono generati 2,1 euro di Pil, a parità di potere d’acquisto l’Italia genera 3,5 euro di Pil.
Allo stesso modo, nell’Ue il tasso di utilizzo di materia proveniente dal riciclo (Cmu) è arrivato al 12,8% nel 2020, mentre l’Italia ha raggiunto il 21,6% – ovvero il 78,4% della nostra economia ancora non è circolare –, piazzandosi dietro solo a Francia (22,2%), Belgio (23%) e Paesi Bassi (30,9%). Un buon risultato rispetto alla media europea, ma tutt’altro che soddisfacente: la stessa Ue nel 2020 si è data l’obiettivo di raddoppiare il proprio Cmu, un approccio che a livello globale permetterebbe di tagliare l’emissione di ben 22,8 Gt di gas serra.
Restano in chiaroscuro anche i risultati su riciclo, recupero e smaltimento rifiuti. Guardando al bicchiere mezzo pieno, il rapporto stima che «per l’Europa la percentuale di riciclo di tutti i rifiuti nel 2018 è stata del 35,2%, e del 67,5% in Italia, il dato più elevato dell’Ue», col nostro Paese che fa meglio rispetto alle media europea per l’avvio a riciclo sia dei rifiuti speciali (74,6% vs 38,1%) sia dei rifiuti urbani (54,4% vs 47,8%), ma è osservando i dati a grana più fine che spiccano le criticità.
Che sempre più scarti vengano avviati a riciclo è certamente un fatto positivo, ma è necessario poi andare a vedere anche se e come (e dove) il cerchio si chiude con la re-immissione sul mercato di quei rifiuti sotto forma di nuovi prodotti.
I rapporti Ispra mostrano che continua a crescere l’export di rifiuti urbani e speciali, a causa della scarsità d’impianti adeguati a gestirli, soprattutto nel centro-sud del Paese – prima di giungere agli impianti i rifiuti urbani macinano 62 mln di km l’anno entro i nostri confini e gli speciali 1,2 mld di km l’anno, a spese nostre e dell’ambiente –, finendo per affidarli in larga parte al mercato globale con tutto ciò che ne consegue in termini di rischi di spedizioni illegali.
Tutto questo perché, purtroppo, agli italiani l’economia circolare sembra piacere sempre di più ma solo a distanza: il 51% della popolazione apprezza gli impianti di riciclo (chissà quelli di recupero energetico o le discariche controllate) ma almeno a 10 km di distanza.
È dunque evidente che l’export dei nostri rifiuti verso altri Paesi – con India e soprattutto Turchia in testa, dopo che la Cina ha chiuso i rubinetti – deve essere ridotto, se vogliamo valorizzare internamente questi materiali. Per farlo però sarà cruciale dotarsi degli impianti industriali necessari (sia per il riciclo sia per il recupero energetico o per il più innovativo riciclo chimico, in grado di ricavare nuove molecole dai rifiuti non riciclabili meccanicamente), che in Italia però stentano ad avanzare a causa di sindromi Nimby e Nimto sempre più diffuse, nonostante la carenza d’impianti gravi (anche) sulla nostra Tari.
In particolare sono alcune frazioni, come le circa 40 mln di ton di “rifiuti da rifiuti” – cioè scarti prodotti dalle attività di recupero e smaltimento, bonifiche, risanamento ambientale, senza contare i fanghi da trattamento delle acque –, che gestiamo con difficoltà.
Allo stesso modo, restano da compiere molti progressi per ridurre gli smaltimenti di rifiuti in discarica. Il dato europeo per i rifiuti urbani nel 2020 è arrivato al 22,8% e quello italiano al 20,1%, ma gli esempi virtuosi da seguire non mancano: ad esempio Danimarca, Germania, Finlandia e Svezia arrivano a percentuali inferiori all’1%, grazie al massiccio ricorso al recupero energetico.
Come migliorare? Tra le iniziative previste per lo sviluppo della circolarità nei processi produttivi, secondo il rapporto del Cen particolare rilievo hanno quelle riguardanti due campi. Il primo è la progettazione ecocompatibile dei prodotti – ecodesign, durabilità e riutilizzabilità dei prodotti, incremento dell’uso di materiali riciclati e limitazione di prodotti monouso –, il secondo è la circolarità dei processi produttivi, agevolando la simbiosi industriale.
Come spiega Roberto Morabito (Enea), sottolineando i vantaggi del processo che permette ai prodotti di scarto di una singola azienda di diventare risorse per un’altra azienda, le potenzialità non mancano: «Come avviene in altri Paesi, sarebbe quanto mai opportuno che anche l’Italia si dotasse di un Programma nazionale per la simbiosi industriale per massimizzarne le potenzialità e assicurare tracciabilità e contabilità delle risorse scambiate. Il potenziale vantaggio economico per lo scambio di risorse in Europa è stimato tra i 7 e i 13 miliardi di euro, a cui aggiungere oltre 70 miliardi per costi di discarica evitati. Enea dal 2010 ha sviluppato una Piattaforma e una metodologia di lavoro che hanno permesso di realizzare progetti con oltre 240 aziende e individuare circa 2mila potenziali trasferimenti di risorse tra loro».
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