L’avanzata della crisi climatica sta mettendo a rischio la tenuta della risorsa idrica in Italia, dato che nell’ultimo trentennio climatologico il Paese ha già perso il 20% della disponibilità d’acqua, e rischia di perdere un altro 40-90% di quella residua entro il 2100.
Come dettaglia lo studio Acqua: azioni e investimenti per l’energia, le persone e i territori, realizzato da The European House – Ambrosetti in collaborazione con A2A e presentato oggi a Cernobbio, si tratta di un trend che ha visto un’accelerazione importante nell’ultimo anno.
«Se il 2022 è stato per l’Italia l’anno meno piovoso e più caldo degli ultimi 60 anni, il 2023 – evidenziano da Ambrosetti – vede l’alternanza tra la coda siccitosa del 2022 e precipitazioni intense e fortemente concentrate, indice di una tropicalizzazione del clima italiano che necessita di una maggiore attenzione nel dibattito pubblico del Paese».
Secondo lo stime Ambrosetti solo nel 2022 l’Italia ha perso il 31% dell’acqua disponibile un anno prima, ovvero 36 mld di mc: l’equivalente di quattro volte il lago di Bolsena o 60 volte il lago Trasimeno.
Guardando alla perdita d’acqua del 2022 in termini di volumi effettivamente disponibili per i vari utilizzi finali, si stima un calo di 7,1 mld mc, pari alla quantità d’acqua necessaria per irrigare 641 mila ettari di terreni agricoli, all’acqua consumata annualmente da oltre 14 milioni di persone (pari agli abitanti di Lombardia e Piemonte) e a quella necessaria alla produzione di 82 mila imprese manifatturiere.
Si tratta di un problema enorme non “solo” dal punto di vista ecologico – l’acqua è una risorsa indispensabile alla vita – ma anche economico, dato che dall’abbondante disponibilità idrica passa ad oggi il 18% del Pil italiano, pari a 320 mld di euro.
Che fare? Lo studio propone un pacchetto di investimenti da 48 mld di euro in un decennio, 32,9 dei quali dedicati a efficientare il sistema idrico nazionale e la parte rimanente rivolta allo sviluppo dell’energia idroelettrica.
I tre pilastri proposti per l’efficientamento consistono nella valorizzazione del riuso della risorsa, soprattutto in ambito agricolo (+5,4 mld di mc), nella riduzione delle perdite di rete dagli acquedotti (arrivando al tasso di dispersione idrica medio europeo del 25%, oggi in Italia al 42,2%, potremmo recuperare 1,6 mld di mc), e nell’autorizzazione di volumi aggiuntivi nelle grandi dighe e la costruzione di piccoli bacini di raccolta (+2,5 mld mc): in totale recupereremmo 9,5 mld di mc di acqua, più di quella persa per i vari utilizzi nel 2022 (7,1 mld mc).
Anche le ricadute economiche sarebbero positive: ogni euro investito nel settore genera infatti 1,6 euro di ulteriori ricadute economiche positive nei settori contigui.
Per quanto riguarda invece il potenziamento del fronte idroelettrico, lo studio propone una linea d’intervento in cinque punti: costruzione di nuovi pompaggi idroelettrici sfruttando gli invasi già esistenti (+3,2 GW per 8 mld di euro), valorizzazione dei rilasci dagli invasi esistenti a scopo irriguo (+350 MW, 875 mln di euro), repowering degli impianti idroelettrici esistenti (+1,6 GW, 560 mln di euro), nuovi impianti mini-idroelettrici (+700 MW, 2,8 mld di euro), e infine interventi per valorizzare in ottica energetica il ruolo dei fiumi e dei bacini alpini e appenninici.
«Circa il 90% dei corsi d’acqua alpini e appenninici idonei è sfruttato per la produzione di energia idroelettrica – dettaglia nel merito lo studio – Impiegando anche la quota rimanente attualmente non utilizzata, tramite la realizzazione di nuovi bacini connessi, sarebbe possibile produrre 3,7 TWh aggiuntivi di energia idroelettrica, con un investimento totale che potrebbe arrivare a circa 3 miliardi di euro».
Al di là delle prospettive di sviluppo delineate dal rapporto, sull’idroelettrico nazionale pende ancora la spada di Damocle delle concessioni in scadenza: finché le istituzioni nazionali non scioglieranno questo nodo, l’intero comparto è destinato a mordere il freno.
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