Dopo lo stop forzato legato ai lockdown pandemici del 2020, già nel 2021 l’Italia ha generato 165 milioni di tonnellate di rifiuti speciali – quelli provenienti da attività industriali, commerciali, sanitarie, ecc –, segnando una crescita del 12,2% che surclassa quella del Pil nello stesso anno (+7%): si tratta di circa 18 mln di ton in più in un solo anno.
E si tratta di un dato che potrebbe essere anche «sottostimato», come spiega oggi l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra), che ha presentato oggi il 22esimo Rapporto rifiuti speciali.
I dati elaborati dall’Ispra arrivano infatti dai Modelli unici di dichiarazione ambientale (Mud) presentati dalle imprese, un obbligo dal quale sono però escluse quelle con meno di dieci dipendenti, ovvero larga parte; il resto è dunque frutto di stime.
Quelle messe in fila dall’Ispra sono comunque ampiamente sufficienti per stabilire che l’obiettivo di prevenzione nella generazione di rifiuti speciali è fallito. Tant’è che non c’è più neanche un Piano nazionale a governare il trend: nelle more di questa lacuna resta in vigore il Programma varato dal ministero dell’Ambiente nel 2013, ma la performance italiana resta «in progressivo allontanamento» dagli obiettivi di riduzione fissati a livello nazionale.
Siamo così giunti a generare 165 mln di ton di rifiuti speciali nel 2021 – oltre il quintuplo di tutti i rifiuti urbani provenienti dalle nostre case nello stesso periodo –, di cui 154,3 di non pericolosi (93,5%) e 10,7 di pericolosi (un terzo dei quali proviene da attività di gestione dei rifiuti e di risanamento ambientale).
Da dove arrivano? Seguendo la classificazione per attività economica (Ateco 2007) resta in testa il settore delle costruzioni e demolizioni (47,7% di tutti i rifiuti speciali), seguito sul podio dalle attività di trattamento dei rifiuti e di risanamento (24,2%, ovvero 39, mln di ton) e dalle attività manifatturiere (18,2%).
In base alla ripartizione indicata dall’Elenco europeo dei rifiuti, si amplia invece ulteriormente il ruolo degli scarti dell’economia circolare, ovvero dei cosiddetti “rifiuti da rifiuti” e depurazione acque: si parla di 43,1 mln di ton, in crescita sia rispetto al 2020 (+6,2%) sia al 2019 pre-pandemia (+2,2%).
«La crescita della produzione di rifiuti dal settore dei presidi ambientali è un indicatore di un’attenzione crescente del sistema industriale al contenimento degli impatti ambientali», spiegano dall’Ispra. Di fatto però, mentre l’economia circolare avanza, sul territorio nazionale continuano a non esserci sufficienti impianti per gestire i suoi inevitabili scarti.
Osservando l’insieme di tutti i rifiuti speciali, l’Ispra offre infatti indicazioni puntuali su come vengono gestiti.
Secondo il rapporto, gli impianti di gestione dei rifiuti speciali operativi lungo lo Stivale sono 10.763 (sostanzialmente stabili rispetto ai 10.472 del 2020), di cui 5.928 concentrati al nord, mentre i rifiuti gestiti nel 2021 sono pari a 178,1 mln di ton.
L’avvio al riciclo costituisce la quota predominante della gestione dei rifiuti speciali con il 72,1% (un dato su cui incide molto l’80,1% di riciclo stimato per i rifiuti da costruzione e demolizione, sul quale però Legambiente esprime da tempo fondati dubbi), cui seguono ad ampia distanza la messa in riserva (9,9%), lo smaltimento in discarica (5,7%), il coincenerimento (1%), l’incenerimento (0,6%), il deposito preliminare (0,6%) e le altre operazioni di smaltimento (10%).
Guardando infine ai flussi transfrontalieri, nel 2021 l’Italia ha importato 7,4 mln ton di rifiuti (+9,2% sul 2020) e ne ha esportate 3,9 (+7,6%), ma di natura profondamente diversa.
L’import è rappresentato infatti essenzialmente da rifiuti metallici (78,5%), destinati ad essere riciclati nelle acciaierie attive tra Lombardia e Friuli-Venezia Giulia.
I rifiuti esportati sono invece per due terzi (64,3%) gli scarti dell’economia circolare che non sappiamo gestire. Li spediamo dunque, a caro prezzo, soprattutto in Germania (21,3% di tutti i rifiuti speciali esportati, +1,8% sul 2020), Austria (12,6%, +14,1%) e Ungheria (8,6%, + 29,2%).
A patire il cronico deficit di gestione entro i patri confini sono soprattutto alcuni flussi di rifiuti, come i rifiuti contenenti amianto o i fanghi di depurazione, sui cui l’Ispra ha acceso un faro ad hoc.
Nel 2021 abbiamo generato solo 339mila ton di rifiuti contenenti amianto (-12,2%), a testimonianza di bonifiche che procedere al rallentatore anche a causa della cronica carenza di discariche di prossimità dove poter effettuare smaltimenti in sicurezza.
«I quantitativi di fanghi dal trattamento delle acque reflue urbane prodotti sul territorio nazionale – aggiunge l’Ispra – sono pari a poco più di 3,2 milioni di tonnellate con una contrazione del 4,5% rispetto al 2020. Il 52,3% del totale gestito è avviato a smaltimento e il 45,6% a recupero. Per i fanghi di depurazione il Programma nazionale di gestione dei rifiuti ha individuato la necessità di implementare tecnologie di recupero anche di tipo energetico».
Le complessità autorizzative, come anche le diffuse sindromi Nimby e Nimto, rendono però difficile realizzare davvero tali impianti. E così il cerchio dell’economia circolare non si chiude.
L’articolo Ispra, la crescita dei rifiuti speciali surclassa quella del Pil e l’export torna a correre sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.