La Giornata mondiale dell’acqua, istituita dall’Onu nell’ormai lontano 1992, cade quest’anno in un’Italia che oscilla tra siccità e bombe d’acqua, a causa della crisi climatica in corso.

Gli eventi meteo estremi sono cresciuti del 22% nell’ultimo anno, e del 55% l’anno precedente; le due principali alluvioni che hanno colpito il Paese nel 2023 (in Emilia-Romagna e Toscana) si sono lasciate dietro danni per 11,5 mld di euro.

Le piogge sono sempre più intense e concentrate nel tempo, e l’Ispra informa che il Paese ha già perso il 18% della disponibilità d’acqua rispetto alla media degli ultimi 70 anni, mentre si stima che un altro 40% sia a rischio entro il 2100. «L’Italia sta diventando un Paese povero d’acqua», conferma il commissario nazionale contro la siccità, che nel mentre avanza nel Mezzogiorno nonostante sia appena iniziata la primavera.

Per la sicurezza del settore idrico il Governo ha appena ammesso progetti per 13,5 mld di euro, presentati dalle varie Regioni d’Italia. Le risorse al momento non ci sono (solo 102 mln di euro), ma c’è chi si sta portando avanti.

Il gruppo Cap – l’azienda a capitale interamente pubblico che quasi un secolo gestisce il servizio idrico integrato nella Città metropolitana di Milano e dintorni – sta realizzando la “città spugna” più grande d’Italia, ovvero una città più in grado di assorbire, immagazzinare e gestire l’acqua piovana in modo naturale ed efficiente.

Le città spugna – una delle soluzioni basate sulla natura (Nbs) sostenute dall’Ue come dagli ambientalisti – funzionano appunto come spugne: assorbono l’acqua e la rilasciano gradualmente nel terreno circostante, contribuendo così contenere le alluvioni e a ricaricare poi le falde sotterranee.

Ne abbiamo parlato con Matteo Colle, direttore Relazioni esterne e sostenibilità del gruppo Cap.

In cosa consiste il progetto di città spugna promosso dalla Città metropolitana di Milano?

«Si tratta di un insieme di 90 progetti di drenaggio urbano sostenibile suddivisi in 32 Comuni, per i quali la Città metropolitana si è aggiudicata risorse Pnrr pari a 50 mln di euro.

Le opere, progettate ed eseguite da Cap, sono tutte diverse tra loro ma hanno un tratto comune: tendono a ridurre l’impermeabilizzazione del territorio, ad esempio attraverso depavimentazioni, trincee e parcheggi drenanti, fitodepurazioni, in alcuni casi vasche. Sono tutte soluzioni che contribuiscono a far sì che l’acqua possa essere lentamente assorbita dal terreno anziché scorrere via su asfalto e cemento.

Si tratta di un caso scuola di città spugna, nel senso che in Italia al momento non ci sono altre progettualità così ampie e spero che possa offrire un esempio ad altri territori italiani che avrebbero bisogno d’interventi basati sulle Nbs».

Si tratta di risorse Pnrr, dunque i progetti dovranno essere conclusi entro il 2026: a che punto sono?

«La progettazione è già stata avanzata in tutti i Comuni coinvolti, e gradualmente vengono messi in opera i cantieri, che in alcuni casi sono stati anche già conclusi, trattandosi appunto di soluzioni molto variegate tra loro e dunque con un diverso impegno esecutivo. Nel 2026 i progetti saranno tutti conclusi».

Le Nbs sono soluzioni fondamentali per l’adattamento al clima che cambia, ma possono bastare o sono necessari pure nuovi grandi invasi, contando anche che in quelli già esistenti in Italia ci sono volumi non sfruttati per 6,2 mld mc d’acqua?

«Ripristinare la piena capacità degli invasi è un tema fondamentale, di cui nel Paese si discute ancora troppo poco. Più in generale manca una strategia complessiva di recupero delle acque piovane, sulla quale non possiamo più tardare. Non si parla solo di grandi invasi, ma soprattutto di un sistema diffuso di micro invasi, fino ad arrivare alla scala locale o addirittura condominiale: in una città come Milano, ad esempio, ci sono possibilità significative per soluzioni come i “tetti verdi”, che potrebbero dare un grande contributo alle acque di servizio dell’edificio.

Occorre innovare, non possiamo andare avanti col business as usual. In francese il concetto di sostenibilità si traduce in durabilité, intesa come la capacità di durare nel tempo; dobbiamo immaginarci un servizio idrico che sia sostenibile nel lungo termine a fronte dei cambiamenti climatici, mettendo in campo una pluralità di soluzioni».

Durare nel tempo significa anche fare manutenzione gli acquedotti, che in Italia perdono il 41,8% dell’acqua che trasportano. Qual è la situazione nella Città metropolitana di Milano?

«Nell’area le perdite si attestano attorno al 18%, grazie alla lungimiranza degli investimenti per mettere in sicurezza le reti, che come noto hanno un problema d’età (una su quattro ha oltre 50 anni, ndr). I tubi perdono perché vecchi e scarsamente manutenuti: per superare il problema occorre investire su infrastrutture e tecnologie.

Nell’area gestita dal gruppo Cap, l’obiettivo è arrivare al 2033 con un livello di perdite considerato fisiologico per il servizio idrico, ovvero il 15%. Ci aiuterà sicuramente il Pnrr, insieme al nostro piano d’investimenti che vale 580 mln di euro tra gli anni 2023 e 2027, finalizzato al conseguimento degli obiettivi Arera».

Saltando all’altro capo del servizio idrico integrato, nell’area servita da gruppo Cap come vengono gestiti i fanghi di depurazione?

«La gestione di questi rifiuti speciali è un tema controverso, che negli anni ha posto una serie di problemi, con un’insufficienza d’impianti a livello nazionale per il loro trattamento e smaltimento. La destinazione agricola è stata gradualmente ridotta nel tempo, perché l’agricoltura giustamente merita fanghi di alta qualità e non tutti possono essere idonei.

Questo però ha provocato un aumento esponenziale dei prezzi per lo smaltimento dei fanghi, che spesso e volentieri vengono inviati anche all’estero. Si tratta dunque di un quadro dove servono passi avanti a livello nazionale.

Il gruppo Cap depura molto e bene, per questo produce circa 80mila t/a di fanghi di depurazione. Per gestirli abbiamo messo in campo una serie d’iniziative per cercare in primis di eliminare lo smaltimento in discarica, che infatti è oggi una destinazione residuale (2%). I fanghi di più alta qualità vengono destinati all’agricoltura o trasformati in fertilizzanti, mentre la restante parte viene indirizzata a biodigestori anaerobici per essere trasformata in biogas e biometano».

In questo quadro qual è il ruolo della Biopiattaforma di Sesto San Giovanni?

«Cap è stata la prima azienda in Italia a produrre biometano da fanghi di depurazione, ma la vera svolta arriverà entro il 2026, quando la Biopiattaforma di Sesto San Giovanni sarà attiva in veste completa, dando vita a un progetto di simbiosi industriale che unisce le già presenti componenti di termovalorizzazione e depurazione. La Biopiattaforma sarà in grado di massimizzare l’estrazione di energia e materia dai fanghi attraversando più fasi: biodigestione anaerobica per ottenere biometano, estrazione di nutrienti o di cellulosa, per poi termovalorizzare cosa resta, producendo così elettricità e calore. Alla fine, si arriverà anche a estrarre il fosforo dalle ceneri, estraendo così tutto il valore possibile da quello che era un rifiuto».

In Italia solo il 4% delle acque depurate viene riusato in agricoltura, a fronte di un potenziale attuale del 23%. Le cause di questa situazione sono di natura tecnica, infrastrutturali e normative: come potremmo superarle?

«Il gruppo Cap presenta già un 45% di acqua riutilizzabile, con l’obiettivo di arrivare almeno al 60% nel 2030. Il riuso effettivo di quest’acqua è però un tema molto complesso, perché coinvolge una filiera con una governance multistakeholder. Una sfida di natura tecnica, in mano ai gestori del servizio idrico, è sicuramente quella di migliorare i processi di depurazione; perché il riuso funzioni, però, servono poi infrastrutture adeguate per trasportare l’acqua depurata agli agricoltori, e ci sono temi di responsabilità lungo la filiera da considerare.

È dunque evidente l’esigenza di un intervento di regolazione e governo della filiera, oltre all’impegno dei singoli gestori sulle tecnologie di depurazione. Confido che la nuova direttiva europea sulle acque reflue, insieme alla normativa sul riuso in agricoltura a lungo discussa in Commissione Ue, potranno aiutare a compiere importanti passi avanti».

A inizio marzo il gruppo Cap è stato premiato come la miglior utility italiana sul fronte della comunicazione. Anche il ruolo del giornalismo scientifico sui temi dell’acqua sembra un tema importante per voi; quali sono le radici di quest’impegno?

«Si tratta di un aspetto che reputo importantissimo, per diversi motivi. In primis comunicare bene l’acqua e il servizio idrico integrato è un obiettivo fondamentale, perché si parla di beni vitali per i cittadini. Troppo spesso la qualità e la fruizione dell’acqua vengono invece dati per scontati: quasi nessuno di noi ha vissuto l’epoca in cui l’acqua corrente e i servizi igienici non erano disponibili a casa, e non ci preoccupiamo di capire come funziona davvero questo indispensabile servizio.

Inoltre l’acqua in Italia costa molto poco, in media 2,5 euro al metro cubo e a Milano poco più di 1€/mc: rispetto alle altre utenze è un costo quasi trascurabile, tant’è che i cittadini talvolta neanche sanno chi è il gestore che si occupa del loro servizio idrico.

Tutti questi motivi hanno fatto sì che finora la sostenibilità nella gestione dell’acqua non sia stata al centro della sensibilità dei cittadini.

Oggi però questo tema è sempre più rilevante, perché l’acqua inizia a scarseggiare: dobbiamo usarla in modo più consapevole, e ne va preservata la qualità. L’informazione sul tema è dunque fondamentale, ma conquistare l’attenzione dei cittadini e far comprendere i vari aspetti coinvolti è tutt’altro che banale: la comunicazione ambientale è caratterizzata dalle cosiddette “tre C”, ovvero è complessa, genera contraddizioni e a volte anche controversie.

La gestione dell’acqua presenta infatti opere e impianti – depuratori, biodigestori e termovalorizzatori, ma anche Nbs e vasche di laminazione – che spesso vengono visti in modo contraddittorio e talvolta come minacce. Sui territori nascono comitati contrari, sindromi Nimby (non nel mio giardino) e le ancor più complicate sindromi Nimto (non nel mio mandato elettorale), molto difficili da gestire dal punto di vista comunicazionale.

È evidente che bisogna riconoscere la legittimità del dissenso e accettare il fatto che alcuni cittadini possano avere opinioni anche di estrema contrarietà verso alcuni impianti, ma divulgare e sensibilizzare su un uso sostenibile dell’acqua aiuta a creare consenso verso le opere. L’importante è essere sempre trasparenti e provare a ingaggiare i cittadini in un dialogo che sia costruttivo».

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