Lo studio “The environmental footprint of global food production”, pubblicato su Nature Sustainability da un team internazionale di ricercatori, parte da una constatazione: «In un’epoca di agricoltura industrializzata e filiere complesse, le vere pressioni ambientali del nostro sistema alimentare globale sono spesso oscure e difficili da valutare».
Come spiega il principale autore dello studio, Benjamin S. Halpern del National Center for Ecological Analysis and Synthesis (NCEAS) dell’università della California – Santa Barbara (UCSB) «Tutti mangiano cibo e sempre più persone prestano attenzione alle conseguenze planetarie di ciò che mangiano. Capire questo impatto sul pianeta si rivela un compito gigantesco per molte ragioni, incluso il fatto che in tutto il mondo ci sono molti cibi diversi prodotti in molti modi diversi, con molte pressioni ambientali diverse».
Classificando gli alimenti in base a fattori come le emissioni di gas serra o l’inquinamento dell’acqua, il team di scienziati ha compiuto progressi nelle valutazioni degli impatti ambientali degli alimenti per libbra o chilogrammo e Halpern spiega ancora che «Sebbene queste valutazioni siano utili per guidare le scelte dei consumatori, un esame più completo dell’impronta ambientale – i luoghi interessati dalle varie pressioni della produzione alimentare e la gravità di tale pressione – è necessario per le decisioni che devono essere prese in mondo con una popolazione in forte espansione. Le scelte individuali di 8 miliardi di persone si sommano e dobbiamo conoscere l’impatto complessivo della produzione alimentare totale, non solo per libbra, soprattutto quando si definisce la politica alimentare».
Per questo i ricercatori hanno mappato per la prima volta l’impronta ambientale della produzione di tutti gli alimenti, sia nell’oceano che sulla terraferma. E Halpern chiede: «Lo sapevate he quasi la metà di tutte le pressioni ambientali dovute alla produzione alimentare provengono da soli 5 Paesi?» che sono India, Cina, Stati Uniti, Brasile e Pakistan.
Halpern, direttore esecutivo dell’NCEAS e professore alla Bren School of Environmental Science & Management dell’UCSB, lavora da molti anni alla comprensione degli impatti della produzione alimentare e al contesto locale di questi impatti. Grazie alla raccolta di dati dettagliati sulle emissioni di gas serra, sull’uso dell’acqua dolce, sui disturbi all’habitat e sull’inquinamento da nutrienti (ad esempio, il deflusso dei fertilizzanti) prodotti dal 99% della produzione totale segnalata di alimenti acquatici e terrestri nel 2017 e mappando questi impatti ad alta risoluzione, i ricercatori sono stati in grado di creare un quadro più sfumato delle pressioni — input, processi e output — della produzione alimentare globale. E i risultati sono sorpendenti: «Le pressioni cumulative della produzione alimentare sono più concentrate di quanto si credesse in precedenza, con la stragrande maggioranza – il 92% delle pressioni dalla produzione alimentare terrestre – concentrata solo sul 10% della superficie terrestre», sottolinea una delle autrici dello studio, Melanie Frazier del NCEAS. Inoltre, lo spazio necessario per l’allevamento di bovini e la produzione di latticini rappresenta circa un quarto dell’impronta cumulativa di tutta la produzione alimentare.
Lo studio esamina anche l’efficienza ambientale di ciascun tipo di alimento, simile all’approccio per libbra/Kg di cibo utilizzato dalla maggior parte degli altri studi, ma che ora tiene conto delle differenze tra i Paesi piuttosto che presumere che sia lo stesso ovunque.
Un altro autore dello studio, Halley Froehlich dell’UCSB. Evidenzia che «L’efficienza ambientale della produzione di un particolare tipo di cibo varia spazialmente, in modo tale che le classifiche degli alimenti in base all’efficienza differiscano notevolmente tra i Paesi, e questo è importante per indicare quali alimenti mangiamo e da dove provengono».
Il team di ricerca ha utilizzato metodi di fattore di produzione: ad esempio, grazie alla tecnologia che riduce i gas serra e aumenta i raccolti, gli Usa – il primo produttore mondiale di soia – sono efficienti più del doppio dell’India (il quinto produttore) nella produzione del raccolto, rendendo la soia americana la scelta più ecologica.
La ricerca ha svelato anche connessioni tra terra e mare che si perdono quando si guarda solo l’uno o l’altro e che si traducono in significative pressioni ambientali: i maiali e i polli hanno un’impronta oceanica perché per produrre i loro mangimi vengono utilizzati pesci come aringhe, acciughe e sardine. Per gli allevamenti di maricoltura è vero il contrario: i loro mangimi a base di colture estendono la pressione ambientale degli allevamenti ittici sulla terraferma.
All’UCSB fanno notare che «La valutazione delle pressioni cumulative può portare alla luce risultati che non avrebbero potuto essere previsti esaminando solo le singole pressioni. Ad esempio, mentre l’allevamento di bovini richiede di gran lunga la maggior parte dei pascoli, le pressioni cumulative dell’allevamento di suini, che producono molto inquinamento e consumano più acqua rispetto all’allevamento di bovini, sono leggermente maggiori di quelle delle mucche. Misurati con le pressioni cumulative, i primi 5 trasgressori sono suini, mucche, riso, grano e colture oleaginose».
Secondo i ricercatori, «Per nutrire una popolazione globale in crescita e sempre più ricca, riducendo al contempo il degrado ambientale e migliorando la sicurezza alimentare, sarà necessario apportare importanti cambiamenti agli attuali sistemi alimentari. In alcuni casi, l’agricoltura potrebbe dover migliorare l’efficienza; in altri casi, i consumatori potrebbero dover modificare le proprie scelte alimentari».
Halpern, che ha modificato le sue scelte alimentari in base ai risultati di questo studio, conclude: «Abbiamo bisogno di queste informazioni complete per prendere decisioni più accurate su ciò che mangiamo. Anni fa ero diventato un pescatarian perché volevo ridurre l’impronta ambientale di ciò che mangio. Ma poi ho pensato, sono uno scienziato, dovrei davvero usare la scienza per prendere decisioni su cosa mangio. E’ proprio per questo che ho iniziato questo progetto di ricerca. E ora che abbiamo i risultati, vedo che dal punto di vista ambientale, il pollo è in realtà migliore di alcuni frutti di mare. E così ho spostato la mia dieta per ricominciare a includere il pollo, eliminando alcuni frutti di mare ad alta pressione come il merluzzo e l’eglefino. In realtà sto mangiando le mie parole».
L’articolo L’impronta ambientale degli alimenti. Quasi la metà di tutte le pressioni ambientali vengono da soli 5 Paesi sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.