E’ noto che le tartarughe marine comuni (Caretta caretta) ingeriscono spesso plastica e microplastica a causa della loro alimentazione e di un ciclo vitale lungo, per questo sono utili per studiare il possibile trasferimento di microplastiche dalla femmina alle uova.
E’ quel che ha fatto il recente studio “Microplastics evidence in yolk and liver of loggerhead sea turtles (Caretta caretta), a pilot study”, pubblicato su Environmental Pollution da Giulia Chemello, Erica Trotta, Valentina Notarstefano, Oliana Carnevali e Giorgia Gioacchini dell’università politecnica delle Marche, Luana Papetti di TartAmare Onlus, Ludovica Di Renzo dell’Istituto Zooprofilattico Dell’Abruzzo e Del Molise “G. Caporale e del Centro Studi Cetacei, Marco Matiddi e Cecilia Silvestri del CN-LAB dell’Istituto Superiore per La Ricerca e La Protezione Ambientale (ISPRA) che ha indagato sulla presenza di microplastiche in campioni di tuorlo e fegato di piccoli di tartarughe marine «Valutando il numero di melanomacrofagi nel tessuto epatico come possibile biomarcatore dell’impatto delle microplastiche sullo stato di salute embrionale».
Le uova di Caretta carettale sono state raccolte in collaborazione con l’associazione TartAmare dai 2 nidi di di Rimigliano e Baratti, in provincia di Livorno durante l’estate 2020, in due spiagge caratterizzate da un basso tasso di antropizzazione, lontane da centri abitati, fonti luminose e corsi d’acqua, con sabbia di media grandezza con una pendenza modesta (4–7%). Il primo nido, di 96 uova, è stato deposto il 10 agosto sulla spiaggia di Baratti, il secondo nido, 64 uov, è stato depositato il 15 agosto sulla spiaggia di Rimigliano. I nidi sono stati monitorati dai volontari per proteggere le uova da eventuali minacce esterne come predatori, attività umane ed eventi ambientali. La morte dell’intera covata (tasso di mortalità del 100%) è stata verificata secondo le linee guida dell’ISPRA e, secondo la legislazione italiana, non era richiesta alcuna approvazione etica per gli esperimenti condotti su vertebrati allo stadio embrionale che non sono in grado di alimentarsi autonomamente.
I ricercatori spiegano che «Sono stati analizzati i parametri biometrici e l’analisi istologica del fegato di 27 e 48 embrioni (rispettivamente provenienti da due nidi diversi a) allo stadio 30 di sviluppo. La microspettroscopia Raman è stata eseguita per identificare le microplastiche dopo digestione alcalina (10% KOH) di tuorlo e porzione di fegato di 5 embrioni allo stadio di sviluppo 30 per nido».
Il risultato è stato che «Microplastiche sono state trovate per la prima volta nel tuorlo e nel fegato delle tartarughe marine Caretta caretta allo stadio embrionale avanzato. Tutte le microplastiche erano inferiori a 5 μm ed erano realizzate con polimeri e colori che ne suggerivano le diverse origini. Un totale di 21 microplastiche, con dimensioni inferiori a 5 μm, sono state rinvenute tra i due nidi (rispettivamente 11 e 10 microplastiche). Sono state identificate solo due categorie di forme: sfere e frammenti. I polimeri più frequentemente osservati sono stati il polietilene,polivinilcloruro e acrilonitrile butadiene stirene (rispettivamente 31,5%, 21,1% e 15,8%)».
Lo studio evidenzia che «Nonostante le uova mostrassero un numero maggiore di microplastiche nei campioni di tuorlo rispetto al fegato (rispettivamente 15 e 6 microplastiche nel tuorlo e nel fegato), è stata osservata una correlazione positiva solo tra il numero di melanomacrofagi (r = 0,863 p <0,001) e le microplastiche nel fegato . Questo risultato potrebbe suggerire che le microplastiche potrebbero esercitare alcuni effetti sui tessuti epatici. Studi futuri dovrebbero indagare questo aspetto e la possibile relazione tra microplastiche e altri biomarcatori di stress».
I ricerczatori concludono: « La tartaruga marina comune (Caretta caretta) è considerata in tutto il mondo un bioindicatore dell’inquinamento da plastica . Tuttavia, gli effetti dell’esposizione alle microplastiche sullo stato di salute di questa specie non sono ancora chiari e le conseguenze sulla riproduzione e sulla conservazione sono solo ipotizzate. Il primo ostacolo da superare è la difficoltà nel riconoscere una chiara risposta fisiologica alla presenza di microplastiche poiché i loro effetti sono probabilmente specie-specifici e dipendono dalle caratteristiche plastiche. Inoltre, sono disponibili per l’analisi solo esemplari morti, pertanto le indagini molecolari, solitamente eseguite per indagare sugli effetti delle sostanze tossiche, sono proibitive a causa dello stato di conservazione degli animali. Nel presente studio sono stati raggiunti due obiettivi principali: in primo luogo è stata registrata la presenza di microplastiche negli embrioni di tartaruga marina Caretta caretta. Successivamente, la correlazione osservata tra il numero di melanomacrofagi nel fegato e le MP contenute nello stesso tessuto ha suggerito che le microplastiche potrebbero esercitare il loro effetto tossico nei tessuti embrionali e potrebbero essere utilizzate come biomarcatori per la presenza di MP nel fegato di embrioni di tartarughe marine».
L’articolo Microlplastiche negli embrioni di tartarughe marine sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.