“Avrei voluto trovare una soluzione che mi permettesse di vivere smettendo con l’allevamento, ma non esiste. Mandare i miei animali al macello è davvero difficile, senza considerare le condizioni in cui vivono. Però è una questione di sopravvivenza, mia e della mia famiglia”. Era circa il 2010 quando A. – un allevatore di bovini per la produzione di carne nelle campagne lombarde – mi disse queste parole. Dopo aver ereditato un grande allevamento dalla sua famiglia, A. era stato in difficoltà diversi anni. L’allevamento intensivo era per lui una crudeltà per gli animali, insostenibile per l’ambiente a causa della grande quantità di mangimi e delle deiezioni prodotte. Senza considerare poi i guadagni – perché servendo la grande distribuzione non erano molti, in relazione alle ore di lavoro.
La soluzione che aveva trovato era stata la trasformazione della sua attività in un piccolo allevamento biologico. Aveva ridotto di molto i suoi animali, che quindi avevano più spazio; questo gli permetteva di farli uscire al pascolo a rotazione e stare all’aria aperta. Aveva iniziato a coltivare erba medica per diminuire l’uso dei mangimi e aveva aperto una bottega in cui vendeva localmente i suoi prodotti. “Certo, il momento del macello è sempre difficile. Però altre soluzioni non ce ne sono”.
Uscendo da questo allevamento ho pensato spesso alle sue parole. Davvero per gli allevatori non c’è nessun piano B?
L’impatto di carne e latticini
Oltre alle questioni etiche verso gli animali, chi gestisce un allevamento non può ignorare l’enorme impatto che le proteine animali hanno sull’ambiente.
Sono ormai diversi gli studi che ci mostrano come il nostro sistema alimentare basato sul consumo di carne e derivati stia consumando preziose risorse naturali e contribuendo a causare la crisi climatica in corso. Vediamo rapidamente qualche dato.
Secondo la FAO, gli allevamenti contribuiscono alle emissioni antropiche di gas serra per circa il 12-14% – attenzione però, secondo un’inchiesta del Guardian è un dato al ribasso, frutto dell’azione di pressione della lobby della carne; alcuni studi parlano di dati molto più alti, dal 16.5% al 28.1%.
A preoccupare è in particolar modo il metano, soprattutto prodotto dai bovini. Questo gas inquinante ha una proprietà climalterante circa 25 volte più potente rispetto alla tanto temuta CO2, anche se rimane meno tempo in atmosfera.
È bene considerare che, per nutrire i circa 770 miliardi di animali consumati ogni anno dagli esseri umani, sono necessarie enormi quantità di mangimi. La maggior parte di questi viene da monocolture intensive di mais, soia e altri cereali, spesso frutto di deforestazione. Secondo una stima di Global Witness, tra il 2016 e il 2020, la domanda di terreni in Amazzonia, nel sud-est asiatico e in Africa centrale da destinare alla produzione di soia, carne bovina e altri prodotti ha contribuito alla perdita di circa 23 milioni di ettari di foreste tropicali: un’area grande quasi quanto tutto il Regno Unito.
Infine parliamo di acqua. Con la crisi climatica in corso, la siccità è una realtà che abbiamo imparato a conoscere molto bene anche qui in Italia. Peccato che l’impronta idrica dei prodotti animali sia decisamente più alta rispetto alle proteine vegetali: per produrre 1 kg di carne bovina servono in media circa 15 mila litri d’acqua, 6 mila per la carne di maiale, e oltre 4 mila per la carne di pollo. Quella dei legumi? Circa mille litri per ogni kg di legumi.
In generale, in termini di produzione di cibo le proteine animali sono una scelta non conveniente: mentre impiega enormi quantità di acqua, cibo e terreni, la produzione di proteine animali provvede solo al 18% del fabbisogno calorico mondiale e al 37% delle proteine. Come mostra una stima, se gli allevamenti scomparissero entro 15 anni e adottassimo un’alimentazione vegetale a livello globale, potremmo congelare l’aumento dei gas serra in atmosfera per 30 anni. Questo ci darebbe molto più tempo per applicare tutte altre soluzioni – legate alla produzione di energia e alla mobilità – che permettano di ridurre ulteriormente le emissioni.
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Davvero altre soluzioni non ce ne sono?
Anche alla COP28 si è parlato molto del nostro sistema alimentare. Al termine di questa conferenza delle parti è stato redatto un rapporto firmato da 134 Paesi, dal titolo: “What’s Cooking? An assessment of potential impacts of selected novel alternatives to conventional animal products”. Come emerge chiaramente da questo documento, l’impatto dei prodotti animali è insostenibile e, soprattutto nelle parti più ricche del mondo, è necessaria una drastica riduzione del 50% del consumo di prodotti animali entro il 2050.
Tra le strategie si è parlato molto della controversa (almeno in Italia) carne coltivata, dei cibi fermentati e delle alternative vegetali alla carne. In quest’ottica di riduzione, le proteine vegetali risultano essere effettivamente un alleato fondamentale per rendere il nostro sistema alimentare più sostenibile a livello globale.
Di fronte a questa necessaria trasformazione, cosa accadrebbe a chi con gli allevamenti ci vive? Certo, non possiamo salvare un’industria insostenibile e dannosa solo perché alcune persone perderebbero il lavoro. Detto questo, il cambio del nostro sistema alimentare deve passare attraverso una transizione che non dimentichi chi di questo mestiere vive. Basti pensare alle proteste che gli allevatori hanno fatto in Olanda, (dilagate poi in tutta Europa) che si era ripromessa di ridurre di circa il 30% gli animali allevati nel Paese.
A questo punto, mi ritorna alla mente la riflessione dell’allevatore A. : “Altre soluzioni non ce ne sono”. In realtà una soluzione potrebbe esiste e si chiama riconversione.
In questo caso la riconversione è un processo di trasformazione produttivo, che permette a un allevamento di non allevare più gli animali e, attraverso un ripensamento degli spazi e delle attrezzature, di iniziare a produrre cibi vegetali.
Da allevatori a produttori di latte d’avena: la prima riconversione di un allevamento in UK
Ho sentito parlare per la prima volta di riconversione nel corto documentario intitolato 73 cows. Il film racconta la storia di Jay e Katja Wilde, due allevatori che hanno trasformato la loro azienda di bovini da carne per coltivare e produrre latte d’avena bio.
Jay e Katja hanno gestito per anni un piccolo allevamento di bovini nella contea del Derbyshire, nel cuore del Regno Unito. L’azienda era di proprietà del padre di Jay che, dopo la sua morte, ha preso in mano la gestione con molte difficoltà – emotive ed economiche. Crescere gli animali crea un legame con loro, e portarli al macello era difficile. Un altro dubbio era connesso con l’impatto ambientale di questa attività.
Ma le bollette, lo sappiamo, si devono pagare. Per cui per anni Jay e Katja hanno continuato per questa strada: far nascere animali, crescerli e mandarli al macello – con una sofferenza che li consumava dentro, come raccontano in modo molto intimo e toccante nelle riprese del documentario.
Il loro obiettivo era fare qualcosa di diverso. Le paure però erano tante: come si fa a cambiare quello che hai fatto per decenni per guadagnarti da vivere? A rendere possibile la transizione è stato l’aiuto della Vegan Society, attraverso il programma Grow Green. Il primo passo è stato spostare gli animali, tutti adottati da un santuario per animali – un posto in cui gli animali considerati da “reddito” vivono liberi e senza finire al macello.
Il secondo passo è stata la riconversione dell’attività. L’azienda è stata ripensata grazie anche all’aiuto di specialisti, gli spazi sono stati riadattati per coltivare solo vegetali. E grazie al contributo di Refarm’d, una realtà che aiuta gli agricoltori a passare a una produzione di bevande vegetali, hanno iniziato a produrre latte di avena. Attraverso la fornitura di expertise e ricette consolidate, Refarm’d offre un servizio chiavi in mano, oltre che aiutare nella distribuzione alle comunità locali – in modo sostenibile e in bottiglie di vetro.
Facendo qualche ricerca, ho scoperto che qualcosa di analogo stava succedendo anche in Svizzera. L’ associazione Hof Narr ha aiutato nella riconversione di circa 120 piccoli-medi allevamenti nella valle dell’Emmental, un territorio noto per la produzione di carne e formaggi. Alcune di queste attività hanno iniziato a produrre vegetali e, attraverso un sistema di donazioni, sono riuscite a tenere con loro gli animali che fino a poco tempo prima sarebbero stati usati per produrre cibo.
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Gli enormi capannoni intensivi: il progettoTransfarmation
La riconversione è una soluzione che riguarda soprattutto gli allevamenti intensivi, quegli enormi capannoni che ospitano fino anche a 30 mila animali contemporaneamente. Transfarmation è un progetto made in USA, creato nel 2019 dall’associazione animalista Mercy For Animals, il cui scopo è la creazione di un sistema alimentare sostenibile e giusto per esseri umani e animali. Questo attraverso il supporto di chi fa l’allevatore, trasformando un allevamento in un polo produttivo di coltivazioni di vegetali.
Per scoprire di più su questo progetto ho intervistato Tyler Whitley, il direttore di Transfarmation. “Un punto fondamentale da capire è che gli allevatori sono vittime di un sistema economico che li schiaccia. Chi possiede un allevamento intensivo ha spesso enormi debiti accumulati per la costruzione dei capannoni (4 dei quali possono anche costare oltre 1 milione di dollari). Per estinguerli, gli allevatori stringono contratti con le grandi aziende di carne. Queste mettono gli animali nelle loro strutture e stabiliscono le condizioni di vita degli animali, così da massimizzare i loro guadagni a discapito delle loro condizioni di vita”. Al netto i veri guadagni non sono degli allevatori, ma delle compagnie.
Debiti, guadagni scarsi e duro lavoro – a contatto con animali sofferenti. Come poter cambiare questa situazione? “È chiaro che in queste condizioni economiche un cambiamento radicale è difficile. Il nostro approccio infatti si basa sul concetto di riuso: di strutture esistenti e attrezzature esistenti negli allevamenti, riadattate per la coltivazione di vegetali”.
Sono diversi i casi di successo di cui Tyler mi racconta – tutti ben documentati sul sito web. “Il primo allevatore con cui abbiamo lavorato, Craig Watts, ha iniziato a coltivare funghi in un container per spedizioni riconvertito e messo all’interno di un capannone dove crescevano migliaia di polli. Con Tom Lim, sempre un allevatore di polli, abbiamo convertito un container frigorifero che usava per stipare il cibo, e ora coltiva funghi”. Attraverso la trasformazione e il riuso è possibile riconvertire quindi le strutture usate per l’allevamento per coltivare cetrioli, fragole, canapa e tanti altri vegetali.
La parola chiave per questo processo è transizione. Ogni allevatore inizia con un primo passo, trasformando parte del suo allevamento in una produzione vegetale. Questo permette di affinare il prodotto e connettersi con i venditori per la distribuzione. “Parlando di soldi: con un investimento di circa 10 mila dollari puoi convertire un container per coltivare funghi, che secondo la nostra esperienza in un anno rende fino a 25 mila dollari”.
Quando si è raggiunta una certa stabilità, si procede alla progressiva riduzione degli animali allevati, così da permettere una transizione economica e produttiva graduale, ma sicura – nessun salto nel buio insomma. “Accompagniamo gli allevatori passo passo in questa transizione, supportandoli con consulenti agricoli, specialisti di business engagement per la scelta degli ortaggi da piantare, e anche mettendoli in contatto con dei compratori”.
Per ogni progetto di riconversione viene realizzata anche una documentazione tecnica molto corposa, che viene pubblicata ed è consultabile online. “I capannoni e le attrezzature usate per l’allevamento di polli, galline o maiali sono molto simili in tutti gli allevamenti del nostro Paese. Mettiamo a disposizione tutto il materiale affinché qualsiasi allevatore può fare una transizione anche in modo indipendente”.
Ambiente e Riuso: verso un nuovo sistema alimentare
L’idea alla base della riconversione è semplice, ma visionaria: trasformare il nostro sistema alimentare, mettendo fine agli allevamenti intensivi attraverso la creazione di un’alternativa produttiva a chi ha degli allevamenti.
Una transizione che ha cura di tutti gli attori coinvolti, che comporta un cambio di mentalità, come mi spiega Tyler: “Con Transfarmation vogliamo creare un cambiamento di visione, passare da una visione usa/getta basata sul ‘monouso’, a una che metta al centro animali, ambiente e persone, attraverso il concetto di riuso. Questo eliminando l’allevamento intensivo, che fa della mentalità del monouso la sua essenza: far nascere, crescere animali – in condizioni terribili – per macellarli”.
Riconvertire significa quindi creare un sistema alimentare giusto, che ponga fine alla sofferenza degli animali allevati per produrre cibo. Ma non solo: un sistema alimentare dove il concetto di economia circolare e di riuso sono parte di un cambiamento che non dimentica anche gli allevatori, a cui viene data un’alternativa concreta. Infine riconvertire significa anche ridurre l’impatto ambientale della produzione di cibo: secondo una stima condotta da Transfarmation, con il supporto di Plant Futures Lab dell’Università della California Berkeley, convertire un allevamento intensivo di polli in un’azienda di coltivazione di fragole porterebbe a una riduzione di circa 6,35 milioni di chilogrammi di CO2, superando le emissioni di 700 auto all’anno.
Per ridurre gli effetti della crisi climatica è fondamentale lavorare sul nostro sistema alimentare, e la riconversione sembra davvero una strada promettente.
Questo articolo è stato realizzato nell’ambito del workshop conclusivo del “Corso di giornalismo d’inchiesta ambientale” organizzato da A Sud, CDCA – Centro di Documentazione sui Conflitti Ambientali ed EconomiaCircolare.com, in collaborazione con IRPI MEDIA, Fandango e Centro di Giornalismo Permanente
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L’articolo Riconversione: il piano B per chi ha un allevamento proviene da Economia Circolare.