In Italia la quasi totalità del dibattito sulla gestione dei rifiuti si concentra su una minima parte della filiera: i rifiuti urbani – sebbene rappresentino un quinto di tutti quelli che generiamo – che i cittadini sono chiamati a suddividere tramite la raccolta differenziata, che seppur con fatica è cresciuta molto negli ultimi vent’anni.
Nel 2000 la raccolta differenziata era infatti pari al 15% del totale dei rifiuti urbani raccolti, mentre nel 2021 ha raggiunto quota 64% (19 mln ton).
Ma concentrare tutta l’attenzione su di un mezzo (la raccolta) ha finito per distoglierla da dove serve davvero, cioè sull’obiettivo (il riciclo effettivo) e su cosa serve per raggiungerlo: una filiera impiantistica efficiente lungo l’intero ciclo di gestione dei rifiuti.
Un deficit messo oggi in evidenza a Ecomondo dall’associazione delle imprese private di settore, Assoambiente, con il nuovo rapporto Scarti del riciclo e rifiuti non riciclabili: l’impiantistica di backup fondamentale per l’economia circolare.
Al di là della modalità di raccolta, come gestiamo i rifiuti urbani che generiamo ogni giorno nelle nostre case? Il tasso di riciclo è al 48,1% (14,3 mln ton), il recupero energetico è pari al 18,3% mentre il 19% va in discarica.
Per portare a riciclo circa 14,3 mln ton di rifiuti urbani, il sistema Italia genera però circa 9,5 mln ton di materiali non riciclabili: si tratta di conferimenti errati da parte dei cittadini nella raccolta differenziata (circa il 20% è da buttare di nuovo), di scarti dei successivi impianti di selezione, degli output dal trattamento dei rifiuti indifferenziati negli impianti di trattamento meccanico biologico (Tmb, le cosiddette “fabbriche dei materiali”), e dagli scarti prodotti dalle operazioni di riciclo vere e proprie (ad ogni processo di trasformazione, una parte dell’energia e della materia si degrada irreversibilmente).
«Una gestione dei rifiuti urbani orientata al riciclo – spiega Chicco Testa, presidente di Assoambiente – necessita prima di tutto di impianti di riciclo, ma, per funzionare, ha bisogno anche di un’adeguata rete di impianti capaci di trattare gli scarti delle raccolte differenziate, i materiali provenienti dai Tmb e i flussi residui di rifiuto urbano indifferenziato. Senza questa rete impiantistica gli stessi processi di riciclo entrano in crisi e quindi va considerata parte integrante della strategia di economia circolare».
Per Assoambiente la necessità di questi “impianti di backup” è da soddisfare puntando prevalentemente sulla termovalorizzazione: la maggior parte di quelle 9,5 mln ton di rifiuti finisce infatti in discarica o va all’estero per mancanza di impianti, anche se circa 5,2 mln ton di questi materiali avrebbero un potere calorifico idoneo ad essere trattati in via prioritaria da impianti di recupero energetico.
Da questi, stima Assoambiente, potremmo ottenere 3,6 milioni di MWh elettrici che potrebbero soddisfare i consumi di circa 5 milioni di italiani e che si aggiungerebbero all’attuale sistema di produzione di energia da rifiuti, pari a 4,5 MWhe.
Sebbene la termovalorizzazione rientri appieno nel modello europeo di gestione dei rifiuti, non è però l’unica opzione disponibile e non sempre è quella più sostenibile. Se infatti non ci sono particolari preoccupazioni di sorta sotto il profilo sanitario, la termovalorizzazione potrebbe dover fare i conti dal 2028 con l’ingresso nel sistema Ets, dove ogni tonnellata di CO2 emessa ha un prezzo.
Quando gli impianti di backup vanno costruiti ex novo è dunque opportuno valutare la possibilità di alternative alla termovalorizzazione, a partire dal riciclo chimico fino all’ossidazione termica, in modo da calibrare la risposta più efficiente (e socialmente accettabile) sui vari territori.
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