Aamps e Retiambiente hanno avviato oggi – in via transitoria – lo spegnimento controllato del termovalorizzatore di Livorno, in attesa di chiarire la «classificazione di possibile pericolosità del rifiuto, anziché di non pericolosità» arrivata da Arpat in merito alle scorie derivanti dalla combustione.
La comunicazione dell’Agenzia regionale per la protezione ambientale della Toscana (Arpat) è arrivata adesso, anche se il campionamento delle scorie in oggetto risale a febbraio; in attesa di chiarire la situazione, dato che le analisi precedentemente effettuate per conto Aamps dal laboratorio Agrolab (accreditato Accredia) attestavano la non pericolosità delle scorie, l’impianto è stato immediatamente fermato.
Al contempo Aamps – ovvero la Società operativa locale di Retiambiente, il gestore unico e interamente pubblico dedicato all’igiene urbana dell’Ato costa – ha svolto un incontro tecnico con Arpat convenendo sulla necessità di «provvedere a realizzare nei tempi più celeri possibili ulteriori e nuove analisi sulle scorie».
La stessa Arpat verrà invitata a verificare ogni passaggio della procedura, per la quale serviranno «alcune settimane», con «l’auspicio di ottenere i nuovi risultati delle analisi sulle scorie in tempi rapidi e poter riavviare l’impianto di incenerimento».
Nel frattempo, a partire da domani, i rifiuti solidi urbani prima destinati e trattati all’impianto di incenerimento labronico verranno trasferiti temporaneamente sempre all’interno dell’Ato costa, ovvero presso gli impianti dell’azienda versiliese Ersu (anch’essa Sol di Retiambiente).
La vicenda s’inserisce a margine del più ampio percorso di valutazione istituzionale che dovrà portare a breve a decidere delle sorti del termovalorizzatore di Livorno, la cui autorizzazione a operare è in scadenza a ottobre; un tema politicamente incandescente per la città.
Adesso che l’impianto è fermo per cause di forza maggiore, si apre dunque una finestra per valutare in concreto sia quali sono le alternative impiantistiche ad oggi disponibili, sia per chiarire quali sono i rifiuti solidi in uscita dal termovalorizzatore.
Ogni rifiuto per essere identificato ha un codice, cosiddetto Cer, riportato nell’allegato D alla parte IV del Testo unico ambientale. Se accanto al codice c’è un asterisco, il rifiuto è pericoloso. Un termine che scatena spesso una naturale preoccupazione, anche se in molti casi si tratta in realtà di rifiuti assai familiari: ad esempio fuliggine, solventi, pitture e vernici di scarto, oli (e relativi filtri) per macchinari o motori, batterie, rifiuti prodotti dal settore sanitario e veterinario, etc.
Nella fattispecie, non è di alcuna sorpresa che dal termovalorizzatore di Livorno escano rifiuti pericolosi. Il Rapporto rifiuti urbani 2022 pubblicato dall’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) documenta (con dati 2021) che i rifiuti in uscita dall’impianto livornese rappresentano il 26,2% del totale incenerito (60.919 t/a): 13.300 t/a sono “ceneri pesanti e scorie non pericolose”, mentre 2.636 t/a sono “ceneri pesanti, ceneri leggere e scorie pericolose”.
Perché dunque tanto allarme? I rifiuti pericolosi (urbani o speciali) necessitano di essere gestiti con particolare attenzione, da qui la “semplice” necessità di separarne il flusso da quello dei non pericolosi, per avviarli così verso impianti di trattamento dedicati. Per farne cosa? Ancora una volta a rispondere è l’Ispra.
I rifiuti in uscita dai termovalorizzatori italiani sono per il 75% non pericolosi e per il 25% pericolosi: le ceneri pesanti e le scorie non pericolose vengono «destinate prevalentemente a riciclaggio/recupero di altre sostanze inorganiche», mentre le ceneri pesanti e le scorie pericolose «in prevalenza sono avviate a riciclaggio/recupero di altre sostanze inorganiche (oltre 50 mila tonnellate), al trattamento chimico-fisico (circa 47 mila tonnellate), mentre 22 mila tonnellate sono destinate in Germania di cui il 90% a recupero ed il 10% a smaltimento».
Lo spegnimento del termovalorizzatore, seppur temporaneo, offre poi la preziosa occasione di capire quali sarebbero davvero gli impianti alternativi dove conferire i rifiuti anziché incenerirli. Si tratta dei cosiddetti “impianti a freddo” o “fabbriche dei materiali”: più prosaicamente gli impianti di trattamento meccanico-biologico (Tmb), come quello in dotazione a Ersu.
Anche in questo caso è l’Ispra a fare luce sul funzionamento di questi impianti. In tutta Italia, nel 2021 i 124 Tmb attivi lungo lo Stivale hanno gestito 9,3 mln di tonnellate di rifiuti, producendo in uscita 8,1 mln di tonnellate di altri rifiuti: di questi, il 43,8% è stato smaltito in discarica; il 25% è stato termovalorizzato; il 13,5% destinato a “ulteriore trattamento”, ovvero a processi di biostabilizzazione e produzione/raffinazione di Css (Combustibile solido secondario); il 5,7% coincenerito; lo 0,9% avviato a riciclo.
In altre parole, in massima parte i Tmb rappresentano impianti intermedi dove entrano rifiuti urbani indifferenziati ed escono rifiuti speciali da immettere liberamente sul mercato, per poi andare quasi esclusivamente a bruciare o a smaltimento in discarica. Lontano dagli occhi e lontano dal cuore, ma aumentando l’inquinamento e le emissioni di CO2 legate al trasporto dei rifiuti verso gli impianti, come anche il costo sulla Tari.
Sarebbe dunque questo lo scenario che si aprirebbe anche a Livorno se, una volta spento in via definitiva il termovalorizzatore, non si realizzassero impianti innovativi di prossimità in sua alternativa, in grado di ricavare nuova materia ed energia dai rifiuti secchi non riciclabili meccanicamente. In tal senso la migliore speranza per il territorio di riferimento sembra ad oggi rappresentata dall’ossicombustore pensato a Peccioli, il cui progetto dovrebbe essere presentato in dettaglio nei prossimi giorni.
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