In un non lontano passato ho avuto modo di seguire la vicenda della motonave “Berkan B” che ha poi visto il suo felice epilogo, nel porto di Ravenna.
Dopo diversi mesi dall’inizio delle operazioni di taglio e rimozione, finalmente, nel corso della mattinata del 20 novembre 2021, anche l’ultimo troncone del vecchio relitto, ormai adagiato sul fondale del canale “Piomboni”, venne recuperato e messo in sicurezza a bordo di una chiatta per essere successivamente rimorchiato fino al porto di Piombino, per essere avviato alla definitiva demolizione.
Si trattò, in tutta evidenza, di un modesto risultato se raffrontato con i tantissimi relitti che risultano ancora abbandonati lungo le coste italiane e, non di rado, all’interno di molti porti.
Basti pensare che presso lo stesso porto di Ravenna, nelle immediate vicinanze del sito dove per diversi anni la “Berkan B” ha trovato dimora in una condizione di totale abbandono, sono ancora oggi presenti i relitti di altre 5 navi che attendono da anni di essere rimosse.
A livello nazionale, le navi abbandonate dai proprietari, dagli armatori o dagli equipaggi nei porti o lungo le coste risultano essere centinaia, alcune anche di stazza rilevante, spesso semi-affondate, talvolta non più iscritte in alcun registro navale[1].
I relitti, specialmente quelli di maggiori dimensioni, oltre a pregiudicare la sicurezza del traffico portuale e a limitare l’operatività di scali e banchine, pongono evidenti problemi ambientali legati alla dispersione di idrocarburi e di altre sostanze tossiche. Tali criticità impongono operazioni – spesso tecnicamente complesse e assai costose – di messa in sicurezza, di contenimento dell’inquinamento marino e di rimozione.
Questione preliminare ad ogni intervento di messa in sicurezza, rimozione o demolizione di relitti, da parte di privati o autorità pubbliche, riguarda la possibilità di qualificarli giuridicamente come “rifiuti”, anche al fine di individuare la disciplina applicabile per tali interventi.
Ebbene, la qualificazione giuridica della nave abbandonata, per stabilire se debba essere considerata un relitto ovvero un rifiuto, costituisce questione assai complessa a causa dell’intreccio di fonti interne e sovranazionali.
Come è stato osservato nel corso della presente trattazione, la nozione generale di rifiuto, di per sé stessa vaga e ambigua, non è sufficiente a risolvere la questione dell’inquadramento giuridico delle navi abbandonate o dei relitti navali i quali, peraltro, non trovano una classificazione espressa come rifiuti, almeno non nel catalogo Cer.
Quando la trovano – come nel regolamento Ue del 2006 sulle spedizioni dei rifiuti – la classificazione come rifiuti vale non per le navi in quanto tali, bensì esclusivamente per quelle destinate alla demolizione (che siano oggetto di spedizione).
Anche ai fini della disciplina del riciclaggio delle navi introdotta dal regolamento Ue del 2013, la qualificazione come rifiuti non riguarda le navi in quanto tali, ma soltanto i rifiuti prodotti dalla loro demolizione, completa o parziale, negli impianti di riciclaggio inseriti in un apposito elenco europeo.
Gli assunti cui è pervenuta la Corte di Cassazione nella pronuncia Orlandi del 2007 concorrono a far ritenere che il relitto in sé non possa ab initio essere considerato come un rifiuto, non potendosi accogliere una qualificazione in tal senso dei relitti o delle navi abbandonate, che scaturirebbe, in via automatica, dall’applicazione analogica della definizione generale di rifiuto.
Ne consegue che soltanto con l’inizio delle attività di gestione del prodotto della demolizione, o comunque – in ossequio alla normativa europea, e in particolare al regolamento del 2006 sul trasporto dei rifiuti e al regolamento del 2013 sul riciclaggio –, a cominciare dalle attività di trasporto finalizzato alla demolizione o riciclaggio delle navi, diventa non solo possibile, ma anche obbligata, la qualificazione giuridica di tale materiale come rifiuto.
A siffatto risultato conduce l’interpretazione della complessa normativa, nazionale ed euro-unitaria, in materia, che sconta certamente l’assenza di una qualificazione ad hoc e, purtroppo, la mancanza di una quanto mai opportuna e necessaria disciplina specifica riguardante i numerosi relitti e le navi abbandonate che si trovano nelle aree portuali italiane.
Alla luce di tali considerazioni diventa auspicabile possa riprendere presto un iter parlamentare per l’approvazione di una legge mirata alla disciplina della rimozione e riciclaggio dei relitti navali e delle navi abbandonate nei porti nazionali.
Inoltre, sarebbe opportuno prevedere la mappatura dei relitti navali e delle navi abbandonate, e magari l’istituzione di un Osservatorio nazionale e di un Consorzio nazionale per la rimozione e il riciclaggio, oltre alle necessarie connesse modifiche al codice della navigazione che, ricordiamo ha più di 80 di vita e necessita di una profonda rivisitazione per adeguarlo ai tempi attuali.
Per la complessità delle operazioni di rimozione e demolizione navali che nella mia modesta esperienza ho potuto seguire, ritengo necessaria l’istituzione di un’Authority che pianifichi in un periodo non inferiore ad un quinquennio le attività di recupero dei relitti, in ipotesi, avvalendosi possibilmente di risorse provenienti dal Pnrr.
[1] Sarebbero circa 750, con tendenza verso un notevole incremento, i relitti presenti nelle aree portuali o lungo le coste italiane. È quanto emerso nel corso della XVII Legislatura (2013-2018) dalla audizione del Comandante generale del Corpo delle Capitanerie di porto-Guardia costiera dinanzi alla 8^ Commissione (Lavori pubblici, comunicazioni) e alla 13^ Commissione (Territorio, ambiente, beni ambientali), sul disegno di legge S 2215, d’iniziativa dei senatori Marinello e altri, presentato al Senato della Repubblica il 25 gennaio 2016 e intitolato: «Disposizioni in materia di rimozione e riciclaggio dei relitti navali e delle navi abbandonate nei porti nazionali».
L’articolo Serve una nuova Authority per liberare i porti italiani da oltre 700 relitti sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.