Nell’ultimo anno ben nove regioni italiane hanno dovuto dichiarare lo stato d’emergenza per siccità, un problema che è destinato a ripetersi sempre più spesso mentre la crisi climatica avanza.
Per capire come far fronte a questo rischio, la fondazione Utilitatis ha pubblicato oggi – in collaborazione con Enea e Protezione civile – il nuovo rapporto Scenari climatici e adattamento – Il ruolo delle utilities nella siccità, in cui si esamina cosa possono fare le imprese che gestiscono il servizio idrico integrato lungo lo Stivale.
L’Ispra documenta che nell’ultimo anno il 60% del territorio nazionale ha sofferto la siccità, e che nell’ultimo trentennio climatologico la disponibilità di acqua in Italia è già diminuita del 20%. Il rischio è quello di perdere un altro 40-90% delle risorse idriche entro la fine del secolo, se non verrà messo un freno al riscaldamento globale guidato dall’uso dei combustibili fossili.
Che fare, oltre ridurre rapidamente le emissioni di gas serra? Il rapporto mette in fila quattro pilastri per l’adattamento dei territori: aumentare la capacità di invaso, differenziare l’approvvigionamento idrico, incrementare il riuso dell’acqua e potenziare gli investimenti nella depurazione.
Nel dettaglio, per contrastare gli effetti dei cambiamenti climatici, le aziende italiane del settore idrico sono pronte a mettere in campo investimenti per circa 11 miliardi di euro nei prossimi 3 anni: 7,8 saranno destinati ad interventi per garantire la sicurezza dell’approvvigionamento idrico delle aree urbane ed una maggiore resilienza delle infrastrutture, e 3,1 miliardi per contrastare il fenomeno delle dispersioni idriche.
«Per garantire nei prossimi anni un approvvigionamento sicuro di acqua potabile – spiega il presidente di Utilitalia, Filippo Brandolini – servono azioni sinergiche che coinvolgano anche il mondo agricolo e industriale nonché interventi non più procrastinabili sul fronte della governance. Attraverso le nostre proposte di riforma siamo convinti di poter raggiungere l’obiettivo 100, arrivando a un centinaio di gestori industriali di media/grande dimensione e a un livello di investimenti di 100 euro l’anno per abitante, rispetto ai 56 euro attuali».
In particolare, per quanto riguarda la capacità d’invaso, il rapporto documenta che in Italia sono censiti 532 grandi invasi per un volume potenziale invasabile pari a 13,7 miliardi di metri cubi d’acqua, ma la capacità autorizzata è pari a circa 11,8 miliardi di metri cubi. Occorre dunque, laddove possibile, superare gli ostacoli tecnici e autorizzativi per recuperare circa 1,9 miliardi di metri cubi d’acqua, e al contempo investire in nuove invasi e serbatoi per immagazzinare la maggior quantità d’acqua possibile.
È utile però ricordare che creare nuovi invasi non basta, e non sempre è la soluzione migliore, come evidenziato la scorsa primavera da alcune delle maggiori associazioni ambientaliste italiane; è necessario semmai agire su più fronti puntando sulle soluzioni basate sulla natura (Nbs), ad esempio rinaturalizzando i fiumi e la rete idrica superficiale, o realizzando “città spugna” e Aree forestali d’infiltrazione per ricaricare le falde. Senza dimenticare che i vetusti acquedotti italiani – il 60% è in funzione da più di 30 anni – perdono oltre il 40% della risorsa idrica che trasportano, anche a causa degli scarsi investimenti nel servizio idrico ricordati da Brandolini.
Per differenziare l’approvvigionamento, secondo il rapporto bisogna puntare sull’interconnessione delle reti idriche e, laddove possibile sulla dissalazione; questo soprattutto nei contesti dove l’acqua dolce non è disponibile come ad esempio le isole minori o le zone che soffrono della risalita del cuneo salino (in Italia le acque marine o salmastre rappresentano solo lo 0,1 % delle fonti di approvvigionamento idrico, contro il 3% della Grecia e il 7% della Spagna).
È necessario al contempo incrementare gli investimenti nella depurazione, soprattutto al Sud dove si fermano a 18 euro l’anno per abitante contro una media nazionale di 24 euro. Ciò non solo per il superamento delle 939 procedure di infrazione (di cui ben il 72% è concentrato nelle regioni meridionali) ma anche per la possibilità di riutilizzare le acque depurate grazie anche all’elevato potenziale irriguo di molte regioni.
A tale proposito il rapporto evidenzia come centrale il riutilizzo delle acque reflue. Il parco dei depuratori italiani conta almeno 3.678 impianti: il completo riutilizzo delle acque reflue depurate per fini agricoli, consentirebbe di sfruttare 5,8 miliardi di metri cubi di acqua. Di fatto però ad oggi solo il 4% delle acque depurate viene re-impiegato, per circa 475 mln di metri cubi annui a fronte di un potenziale a regime da 9 mld di mc l’anno.
«Le imprese che operano nel servizio idrico – osseva la direttrice di Fondazione Utilitatis, Francesca Mazzarella – sono chiamate ad adottare un nuovo approccio alla pianificazione industriale e alla gestione di reti e impianti, vista anche la riduzione della quantità di risorsa idrica rinnovabile che potrebbe manifestarsi in futuro».
L’articolo Siccità, contro la crisi climatica pronti investimenti da 11 mld di euro dalle utility dell’acqua sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.