Una delle poche cose contenute nel rapporto “Climate Change 2022: Mitigation of climate change” pubblicato ieri dall’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), con quasi tutte le associazioni ambientaliste contrarie e la comunità scientifica divisa è  la cauta apertura alla tecnologia della carbon capture and storage (CCS). Come scrive in un prudente approfondimento il Focal Point IPCC per l’Italia, ospitato dalla Fondazione CMCC, «In assenza di una marcata accelerazione ai tagli delle emissioni, i piani per raggiungere gli obiettivi del clima fissati a Parigi nel 2015 sono legate alla possibilità di catturare e immagazzinare le emissioni di anidride carbonica (CO2) in eccesso nell’atmosfera. Le tecnologie che ci permetterebbero (forse) di raggiungere questo obiettivo sono in via di sviluppo, ma portano con sé sfide, rischi e costi che pongono queste soluzioni al centro di un dibattito molto intenso. Diamo uno sguardo approfondito ad uno dei temi più controversi della mitigazione del cambiamento climatico».

L’IPCC aveva già parlato dell’importanza delle tecnologie CCS nel su rapporto speciale “​​Riscaldamento Globale di 1.5” del 2018 che identifica 4 percorsi per raggiungere le emissioni net zero, 3 dei quali includono la CCS come una delle tecnologie principali e aggiunge che «Inoltre, la CCS è sempre più legata a fonti di energia a basso contenuto di carbonio come l’idrogeno blu, che si può produrre utilizzando centrali elettriche già esistenti e catturando le emissioni nocive rilasciate nel processo di produzione». Un’altra tecnologia che non piace agli ambientalisti.

Il Focal Point IPCC per l’Italia ricorda che «L’obiettivo net-zero di emissioni è parte integrante delle misure ideate per limitare il riscaldamento globale, come sottolineato nel testo dell’Accordo di Parigi sui cambiamenti climatici. Questo concetto include non solo la riduzione delle emissioni che alterano il clima, ma anche la cattura di quelle che inevitabilmente continueranno ad essere immesse nell’atmosfera. Per fare ciò, è necessario catturare le emissioni di CO2 prodotte in eccesso da attività umane (come ad esempio da centrali elettriche e industria pesante) per poi immagazzinarle in impianti di stoccaggio sotterranei (questa tecnica prende il nome di Carbon Capture and Storage – CCS). Da decenni si discute – più o meno animatamente – delle tecnologie CCS nei dibattiti sulla mitigazione del cambiamento climatico. Tra gli esperti vi sono opinioni contrastanti sul suo futuro e sul suo reale potenziale: se da un lato alcuni la vedono come uno strumento di vitale importanza, per altri rappresenta – nel migliore dei casi – un modo per nascondere il “problema delle emissioni” sotto il tappeto e continuare a produrre in maniera insostenibile. Quello che è certo è che ultimamente se ne parla sempre di più, e vi è un consenso sempre più ampio nel riconoscere la CCS come uno strumento necessario per raggiungere gli obiettivi di zero emissioni nette a livello nazionale, regionale e persino aziendale. Ad esempio, la città di Copenaghen sta implementando le tecnologie CCS nei suoi sistemi di smaltimento dei rifiuti con l’obiettivo – più ambizioso – di diventare la prima città al mondo a zero emissioni. Inoltre, anche aziende come Microsoft e United Airlines hanno investito in tecnologie CCS per raggiungere i loro obiettivi climatici aziendali».

Ma perché, come chiedono gli ambientalisti, invece di affidarci alla tecnologia CCS non smettiamo semplicemente di emettere gas climalteranti? Secondo il report “Net Zero by 2050: A Roadmap for the Global Energy Sector” dell’International enegy agency (Iea) «Gli attuali impegni climatici presi dai governi non sono sufficienti ad assicurarci che le emissioni globali di anidride carbonica legate all’energia si azzerino entro il 2050». E l’Iea evidenzia anche come «Quasi la metà delle riduzioni di emissioni globali di CO2 che prevediamo di effettuare nel 2050 sarà ottenuta grazie a tecnologie che sono attualmente solo in fase dimostrativa o prototipale». Tra queste c’è la CCS.

Ma gli ambientalisti fanno notare qualcosa che sottolinea anche l’IPCC: «Le tecnologie CCS sono ancora in larga parte in fase prototipale. Ciò significa che anche se in alcuni contesti vengono testate o persino utilizzate, non sono ancora disponibili per l’utilizzo commerciale su larga scala. Se, da un lato, i più ottimisti credono che la diffusione su larga scala delle tecnologie CCS permetterebbe ai paesi di “decarbonizzare” i propri sistemi economici in modo efficace, gli scettici sostengono che fare eccessivo affidamento su queste tecnologie sia poco saggio e soprattutto, che ci distragga dall’obiettivo – ritenuto più importante – di diminuire le emissioni future».

In un lungo thread su Twitter, il climatologo Zeke Hausfather ribatte he «La Carbon Dioxide Removal, CDR, è necessaria per controbilanciare la coda di emissioni che è difficile portare a zero, riducendo la CO2 in atmosfera e raffreddando il pianeta in futuro. Fermare semplicemente le emissioni di CO2 non ridurrà le temperature globali, l’unico modo per farlo è la CDR».

Nel 2021, gli impianti CCS commerciali operativi o in costruzione in tutto il mondo erano 31, con una capacità di catturare 40 milioni di tonnellate di CO2 all’anno. Ma il rapporto “Global status of CCS 2021” del  Global CCS Institute indica che «La CCS a livello mondiale dovrà crescere di più di 100 volte entro il 2050 se si vogliono raggiungere gli obiettivi climatici dell’Accordo di Parigi. Questo comporterebbe la costruzione di 70-100 impianti all’anno». Secondo il Rapporto Speciale dell’IPCC  “Carbon Dioxide Capture and Storage” «Raggiungere questo obiettivo sarà possibile solo se gli Stati implementeranno politiche coordinate in grado di soddisfare le necessità climatiche ma anche quelle degli attori coinvolti. Possibili misure comprendono: destinare maggiori risorse al settore di ricerca e sviluppo, implementare politiche relative ai prezzi del carbonio, creare standard di energia pulita e fornire sussidi a cui possano accedere le industrie che utilizzano le tecnologie CCS».

Il Focal Point IPCC per l’Italia  sottolinea che «L’importanza della CSS è legata al fatto che, anche se la spinta verso le rinnovabili sta aiutando la transizione del settore energetico verso la decarbonizzazione, i combustibili fossili rappresentano ancora una grande fetta delle emissioni globali di CO2 prodotte in questo settore. Inoltre, le industrie pesanti come il cemento, il ferro e l’acciaio, l’alluminio, la cellulosa e la carta, o le raffinerie, continueranno inevitabilmente ad emettere CO2 nell’atmosfera. L’implementazione delle tecnologie CCS in questi impianti può aiutare a ridurre il loro impatto: i promotori affermano che si potrà catturare fino all’85-90% delle emissioni di carbonio. Attualmente, numerosi Paesi del mondo stanno pianificando strategie per lo stoccaggio di CO2 su larga scala, in alcuni casi con grandi progetti su scala commerciale come lo Sleipner CO2 Storage Site in Norvegia e il Weyburn-Midale CO2 Project in Canada, che già immagazzinano CO2 nel sottosuolo. Più recentemente, altri progetti su larga scala sono stati avviati in Cina, Australia ed Europa, dimostrando una rinascita dell’interesse nei confronti della CCS e l’inizio del suo passaggio dalla fase prototipale a quella dell’implementazione».

Le fasi del processo di CCS s ono essenzialmente tre: cattura, trasporto e stoccaggio. L’Ip<PCC spiega che  «Nella fase di cattura, la CO2 viene prelevata direttamente dalla fonte delle emissioni (ad esempio le centrali elettriche) attraverso i gas di scarico – una miscela di prodotti della combustione composta da vapore acqueo, anidride carbonica, particolato, metalli pesanti e gas acidi. Per fare ciò si utilizzano vari processi chimici e macchinari che rimuovono gli agenti inquinanti. Questo processo è diverso da quello di cattura e stoccaggio diretto del carbonio dall’aria (Direct Air Carbon Capture and Storage – DACCS), in cui la rimozione di CO2 non avviene alla fonte delle emissioni, ma direttamente nell’atmosfera. Anche se il metodo DACCS ha il vantaggio di poter essere implementato ovunque – anche nello stesso sito dove avverrà poi lo stoccaggio – catturare la CO2 dall’atmosfera è più costoso rispetto a catturarla da un gas di scarico. Normalmente vi sono circa 410 ppm di CO2 in atmosfera, mentre nei gas di scarico se ne trova una quantità minore. La seconda fase della CCS consiste nel comprimere e trasformare la CO2 in un fluido, in modo che possa essere trasportata in un sito di stoccaggio. Il trasporto avviene tramite oleodotti, navi o altri veicoli.

Infine, il carbonio liquefatto dev’essere immagazzinato in profondità nel sottosuolo. Tipicamente, tra i siti di stoccaggio troviamo giacimenti esauriti di petrolio e gas, formazioni saline profonde e giacimenti carboniferi.

La CCS può quindi aiutare l’industria ad abbassare le proprie emissioni. Tuttavia, ognuna delle fasi sopra descritte presenta una serie di sfide».

L’IPCC ricorda che «Il carbonio catturato non viene solo immagazzinato, ma può anche essere utilizzato – tecnica nota come cattura, utilizzo e stoccaggio del carbonio (Carbon Capture Utilization and Storage – CCUS). In questo processo, il carbonio catturato può essere utilizzato per produrre manufatti e in altri processi industriali. Uno dei principali utilizzi del carbonio catturato è il recupero potenziato del petrolio (Enhanced Oil Recovery EOR): una tecnica di estrazione del petrolio in cui la CO2 e l’acqua vengono usate per far risalire il petrolio dal pozzo, favorendone il recupero e immagazzinando la CO2 nel sottosuolo».

Ma quasi tutti gli ambientalisti e molti scienziati sottolineano «L’aspetto paradossale di utilizzare il carbonio catturato per estrarre ancora più combustibili fossili che porteranno in atmosfera ulteriore carbonio, arrivando a mettere in discussione la validità di questo approccio nell’ottica della mitigazione».

Ma la CCS è una costosa scorciatoia che sembra piacere a politici e industriali e l’IPCC d fa notare che «Obiettivi climatici sempre più ambiziosi stanno favorendo lo sviluppo di CCS, tanto che nel 2021, è stata annunciata l’apertura di 100 nuovi impianti. Queste tecnologie diventeranno quindi sempre più importanti per raggiungere l’obiettivo e azzerare le emissioni nette, in particolare per quanto riguarda la rimozione delle inevitabili produzioni di gas climalteranti che derivano dall’industria pesante».

Tuttavia, anche se ci sono esperti che considerano incoraggianti i recenti progressi, l’ultimo rapporto “Net Zero by 2050” dell’Iea rivela che «I progetti di utilizzo di CCS sarebbero ancora ben lontani dal fornire gli 1,7 miliardi di tonnellate di capacità di cattura di CO2 entro il 2030 richiesti per lo scenario Net Zero entro il 2050». E l’IPCC ammette che «Scetticismo: ce n’è ancora molto. Il mancato consenso fra gli esperti sulla potenziale efficacia delle tecnologie CCS favorisce un dibattito ancora molto acceso sull’argomento». Secondo il rapporto “A Review of the Role of Fossil FuelBased Carbon Capture and Storage in the Energy System” fredattoa dal Tyndall Center for Climate Change Research per Friends of the Earth Scotland e Global Witness, «La tecnologia deve ancora affrontare molte problematiche, comincerebbe a dare risultati troppo tardi, dovrebbe essere distribuita su vasta scala a un tasso scarsamente credibile e fino ad ora è stata teatro di promesse troppo ottimistiche e risultati inferiori alle aspettative».

Anche per Toshikazu Ishihara, ricercatore senior del Renewable Energy Institute, «I governi sono troppo ottimisti sulle tecnologie che catturano e immagazzinano le emissioni di carbonio. Gran parte di queste tecnologie non è ancora stata testata, e inoltre non abbiamo abbastanza luoghi adatti per immagazzinare le grandi quantità di carbonio che dovrebbero essere catturate. I luoghi adatti allo stoccaggio non sono sempre facilmente raggiungibili e il trasporto può quindi diventare costoso e inefficiente, per non parlare dei rischi associati alla fuoriuscita accidentale di carbonio da questi siti. La tecnologia CSS non è pratica ed è solo un modo di nascondere il problema sotto il tappeto, lasciandolo in mano alle prossime generazioni. Una delle maggiori barriere alla diffusione su larga scala delle tecnologie CCS sono gli alti costi legati alle attrezzature necessarie e all’energia richiesta durante le fasi di cattura e stoccaggio. Inoltre, anche il trasporto è considerato una barriera, poiché sono necessarie grandi quantità di energia per comprimere e raffreddare la CO2 e per mantenere le temperature abbastanza basse lungo le pipeline, che dovrebbero peraltro essere costruiti appositamente perché gli oleodotti e i gasdotti esistenti non sono adatti allo scopo».

Lo studio “Earthquake triggering and large-scale geologic storage of carbon dioxide”, pubblicato su PNAS nel 2012 dai geofisici Mark Zobacka e Steven Gorelickb della Stanford University indica che «Lo stoccaggio del carbonio nel sottosuolo potrebbe essere rischioso e gli accumuli di pressione potrebbero causare perdite dai serbatoi e persino causare attività sismica». Un tema che è stato ulteriormente indagato  dallo studio “Groundwater Anomaly Related to CCS-CO2 Injection and the 2018 Hokkaido Eastern Iburi Earthquake in Japan”, pubblicato nel 2020 su Frontiers in Earth Science  da un team di ricercatori giapponesi, cinesi, taiwanesi e canadesi, sulla relazione tra fuoriuscite accidentali di carbonio ed alcuni terremoti in Giappone, dove si ritiene che alcuni pozzi abbiano avuto un ruolo nel terremoto di Hokkaido del 2018.

Il Focal Point IPCC per l’Italia commenta: «Appare evidente che la CCS non è la soluzione definitiva in grado di risolvere la crisi climatica da sola, e che i problemi legati alla sua diffusione su larga scala continueranno a presentarsi nel prossimo futuro. Tuttavia, è anche evidente che se collocata all’interno di un piano di azioni di mitigazione, la CCS può fornire un valido contributo per un futuro a basse emissioni di carbonio».

Il Focal Point IPCC si mantiene prudentemente in equilibrio e conclude: «La recente rinascita dell’interesse nei confronti della CCS ha portato alcuni esperti a sostenere che potremmo essere ad un punto di svolta per questa tecnologia, a patto che venga sviluppata di pari passo con gli altri sforzi di mitigazione e non con l’intento di sostituirli».

L’articolo Rapporto IPCC: fa discutere la carbon capture and storage sembra essere il primo su Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile.