Cosa succede dopo che abbiamo fatto la raccolta differenziata? Come avviene lo smaltimento di questo materiale? Come dargli un secondo utilizzo? Metodi a confronto: riciclo meccanico, recupero energetico, riciclaggio fisico e chimico

di LORIS PIETRELLI*

Riciclare la plastica si può e si deve, non è solo un atto di civiltà ma anche un’attenzione nei confronti del genere umano, dell’ambiente e, per quanto possa sembrare paradossale, è un gesto di rispetto – e forse anche di riconoscenza – verso materiali che ci hanno consentito di migliorare la nostra qualità di vita e che, ancora oggi, non smettono di stupirci. Non è forse grazie alla plastica che il settore sanitario ha potuto affrontare l’emergenza della recente pandemia? Cosa avremmo fatto senza le siringhe monodose e le mascherine, entrambe fatte di polipropilene?

Versatili, ad alto contenuto tecnologico e poco costosi: questo sono i polimeri. Oggi, dato un problema, è possibile progettare e sintetizzare un materiale polimerico in grado di risolverlo. È anche per questo che a livello globale, solo negli ultimi venti anni, la produzione annuale di plastica è quasi raddoppiata, passando da 234 milioni di tonnellate nel 2000 a circa 400 milioni del 2021 e, parallelamente, lo stesso si vede riguardo alla produzione pro-capite di rifiuti. Secondo l’Ocse, infatti, solo nel 2019 22 milioni di materie plastiche sono state disperse nell’ambiente principalmente a causa di una gestione inadeguata del fine vita.

I polimeri derivati dal petrolio sono generalmente materiali durevoli nel tempo e resistenti agli agenti atmosferici: per questo siamo qui a parlare di un’emergenza, non solo locale bensì globale. La plastica, soprattutto nella forma “micro”, è un inquinante democratico e quindi lo possiamo trovare nelle spiagge più esclusive come negli ambienti più degradati del pianeta. In molti si chiedono se si può e come ovviare a questo grave problema e, inoltre, se effettivamente si tratta di una risorsa da recuperare, cosa succede dopo che abbiamo fatto la raccolta differenziata e come avviene lo smaltimento. Come si può dare un secondo utilizzo al materiale recuperato? Quali sono i processi che si eseguono al termine della vita utile dei prodotti realizzati con materiali polimerici? Proviamo, per quanto possibile, a sintetizzare lo stato dell’arte sull’argomento “riciclare la plastica”.

La frazione plastica della raccolta differenziata

Per comodità parliamo esclusivamente della frazione “plastica” della raccolta differenziata ovvero di una frazione pari al 25-30% dei rifiuti solidi urbani che, a sua volta, può essere riciclata per circa il 70% del suo contenuto. Il restante 30%, detto plasmix, trova applicazioni sostanzialmente nel recupero energetico. Comunque, la frazione “plastica” della differenziata viene inviata nei centri di raccolta convenzionati con il Corepla. In questi centri il materiale conferito viene selezionato mediante appositi sensori ottici in grado di riconoscere i polimeri più comuni quali polietilene (PE), polipropilene (PP) e polietilentereftalato (PET) e di separarli anche in base al colore. Ulteriori passaggi consentiranno di eliminare materiali estranei finiti erroneamente nella frazione come oggetti metallici ferrosi, separati mediante magneti, e quelli non ferrosi, quali alluminio e rame, separati mediante correnti indotti. Metodi semplici ed efficaci in grado di garantire una separazione e, quindi, un grado di purezza molto elevato. È necessario sottolineare che il prezzo dei polimeri riciclati è determinato in funzione del grado di purezza: tanto per dare un’idea dei valori economici, una tonnellata di PET monocolore viene venduta a circa 400 dollari.

I metodi di riciclo

Nella figura viene riportato uno schema generale riguardante le diverse modalità di riciclaggio dal quale si può dedurre che in sostanza i metodi sono:

riciclo meccanico, attraverso il quale si possono generare nuovi prodotti;

recupero energetico, dalla combustione del rifiuto di plastica;

riciclaggio fisico, ottenuto mediante l’impiego di solventi specifici;

riciclaggio chimico, depolimerizzazione fino a produrre idrogeno e carbonio.

Generalmente, prima di abbozzare qualsiasi processo di recupero dobbiamo sapere di cosa è composto il materiale oggetto di trattamento. In particolare, ancora oggi per fortuna, il polipropilene e il polietilene sono i più utilizzati, seguono poi il PET (quello delle bottiglie per intenderci), il PVC (quello dei cavi elettrici) e il polistirene (PS) che poi origina il polistirolo espanso (si veda la figura a seguire). Ho detto “per fortuna” perché questi polimeri appartengono alla categoria “termoplastici” ovvero tali da poter essere modificati per semplice riscaldamento e utilizzati per realizzare nuovi prodotti facilitando il riciclaggio meccanico. Questo processo consiste nel sottoporre il materiale raccolto a un ciclo di lavorazione consistente in: triturazione, granulazione, fusione e stampaggio e, come già detto, questo è possibile esclusivamente con polimeri termoplastici.

Questo metodo è di facile attuazione soprattutto quando abbiamo a che fare con lo stesso polimero come, ad esempio, nel caso di recupero e riutilizzo degli sfridi di lavorazione. A differenza di quanto avviene per alluminio, vetro e acciaio, il riciclaggio di plastiche miste eterogenee comporta, spesso, il riutilizzo del materiale in applicazioni meno “nobili” rispetto a quelle originarie. Ciò è dovuto al fatto che il riciclo di materiale in applicazioni con alto valore aggiunto, richiede materiali con un elevato grado di purezza e con una composizione costante. Va detto, inoltre, che il polimero è sempre accompagnato da altri composti chimici che ne possono complicare il riciclaggio. Sono additivi che ne migliorano le prestazioni cambiandone le caratteristiche meccaniche, chimiche o semplicemente estetiche come il colore o la consistenza. Tra le categorie più utilizzate ci sono plastificanti, ritardanti di fiamma (obbligatori per alcuni manufatti), rigonfianti, antiossidanti o semplici cariche inerti per risparmiare sull’impiego di materia prima. La plastica idonea al riciclaggio può essere utilizzata tal quale o, come avviene sempre più spesso, miscelandola con il polimero vergine. La normativa, in questo caso, potrebbe essere di grande aiuto defiscalizzando le quantità riciclate.

Un altro modo per riciclare i materiali polimerici è rappresentato dal riciclo fisico in cui il materiale viene sottoposto a trattamenti quali la dissoluzione con solventi specifici e la successiva separazione selettiva. Questi metodi garantiscono una elevata purezza del polimero perché vengono eliminati additivi e impurità, senza alterarne le caratteristiche. Il polimero così ottenuto viene recuperato, insieme al solvente, e quindi trasformato in granuli per essere commercializzato come materia prima. A volte si possono utilizzare anche solventi di origine naturale come nel caso del recupero di polietilene e polistirene, questo aumenta la sostenibilità del processo di recupero.

Anche la plastica destinata al recupero energetico contribuisce al raggiungimento degli obiettivi di legge evitando l’avvio in discarica. Sostanzialmente le frazioni interessate sono:

il plasmix, ossia la quota di imballaggi in plastica presente nella frazione plastica della raccolta differenziata, ottenuta a valle del processo di selezione. Si tratta prevalentemente di imballaggi non riciclabili e di frazioni estranee inserite erroneamente dai cittadini nella frazione (per la cronaca, il consorzio Corepla spende oltre 150 €/ton per lo smaltimento, ma questo è un altro argomento che richiede altri criteri di valutazione);
la quota di imballaggi in plastica presente nel rifiuto indifferenziato separato mediante selezione e avviato a termovalorizzatori per produrre energia elettrica e termica.

Questi materiali hanno un potere calorifico dello stesso ordine di grandezza dei combustibili fossili tradizionali (18-25 MJ/kg) e risultano, pertanto, utilizzabili nei processi di combustione e co-combustione. La principale applicazione di queste frazioni riguarda infatti l’impiego come combustibile solido secondario (CSS) disciplinato da una serie di norme nazionali ed europee e utilizzato nelle centrali termoelettriche con una potenza elevata (>50Mw), nei cementifici, per la produzione di klinker e nell’industria siderurgica che ha bisogno di agenti riducenti ricchi di carbonio (cosa c’è di meglio rispetto ai polimeri che sono prevalentemente di idrogeno e carbonio?).

Attraverso il riciclaggio chimico la plastica cambia la sua natura chimica, le macromolecole si rompono in pezzi sempre più piccoli fino ad arrivare ai mattoncini che ne determinano la formazione: sto parlando di idrogeno e carbonio. In base al materiale di cui disponiamo e a ciò che vogliamo produrre possiamo scegliere alcune alternative come la depolimerizzazione, la pirolisi e, infine, la gassificazione. Tutti i processi possono essere considerati termici ma avvengono in assenza o con scarse quantità di ossigeno, pertanto in assenza di combustione. Si tratta di scegliere la temperatura più idonea ed eventualmente l’uso di opportuni catalizzatori che orientano la degradazione termica verso i prodotti desiderati.

Dal punto di vista chimico, il modo più elegante di recuperare la plastica è certamente rappresentato dalla depolimerizzazione che consente di recuperare il monomero, ovvero il mattoncino con cui è costruito il polimero, ad esempio l’etilene dal polietilene o lo stirene dal polistirene. Nel caso dei processi pirolitici, più o meno catalizzati, si ottengono miscele liquide di vari composti utilizzabili come combustibile (anche per autotrazione) e in vari processi industriali. Con la gassificazione s’intende un processo che avviene generalmente ad alte temperature (>700°C) in un ambiente controllato che produce il cosiddetto Syngas, una miscela di idrogeno e ossido di carbonio (CO) impiegabile per produrre un altro fondamentale mattoncino utilizzato in una vasta serie di processi produttivi oltre che come combustibile per autotrazione: l’alcol metilico per gli amici chimici CH3OH.

Quale metodo di riciclo conviene di più?

Riciclare costa, mettere a punto un processo prevede la valutazione di vari e a volte complessi aspetti, alcuni dei quali sono riportati nella figura sopra riportata in modo schematico e in funzione del processo di riciclaggio considerato. Il riciclaggio meccanico è certamente il più semplice: lavaggio, triturazione ed estrusione sono operazioni semplici, fatte con apparecchiature poco complesse e, soprattutto, con qualsiasi polimero termoplastico singolo o miscelato. A fronte di un costo limitato dell’impianto e di una flessibilità di alimentazione da “onnivoro”, si ottengono prodotti di scarso valore quali ad esempio flaconi per detersivi, scope, tappeti, panchine che hanno un volume di mercato ridotto.

Il riciclaggio fisico prevede un impianto leggermente più complesso poiché si tratta comunque di un impianto chimico fatto di serbatoi per i solventi, reattori chimici con agitatori, sistemi di controllo e, soprattutto, iter autorizzativi più complessi perché abbiamo a che fare con solventi organici che devono essere usati, conservati e smaltiti correttamente così da non causare rischi per la salute dell’uomo e dell’ambiente. Nulla di eccezionale, solo una complessità aggiuntiva che fa lievitare i costi dell’impianto. Il processo prevede la solubilizzazione del polimero e la successiva separazione selettiva mediante precipitazione. Pertanto, più l’alimentazione è monospecifica più semplice sarà la separazione. Il polimero ottenuto sarà puro, inalterato e quindi potrà essere impiegato in tutti quei settori che ne prevedono l’utilizzo.

Abbiamo visto che il modo più semplice per riciclare è quello del recupero energetico. Viene da sé che l’impianto già esiste e può essere alimentato con qualsiasi materiale polimerico. Gli unici vincoli riguardano il contenuto di cloro – 0.2% quello più restrittivo – e il contenuto di mercurio che, semplicemente, nei polimeri non c’è. L’unico polimero dotato di atomi di cloro è il polivinilcloruro (PVC) che però nella frazione plastica della raccolta differenziata è sempre poco presente essendo un materiale utilizzato principalmente in applicazioni industriali o edili e, quindi, poco presente in un ambito casalingo.

Se il recupero energetico è il sistema meno dispendioso in assoluto, il recupero chimico, oltre a essere il sistema più “elegante”, è senza dubbio quello più complesso poiché si tratta di un impianto chimico a tutti gli effetti con tutto ciò che ne consegue in termini di progettazione, costruzione e gestione. Abbiamo il massimo della complessità impiantistica e quindi dei costi di recupero ma in compenso possiamo ottenere prodotti (monomeri, idrogeno, etc.) che hanno un mercato enorme perché si tratta di materia prima per vasti settori produttivi oltre a quello dei polimeri. È ovvio che se s vuole ottenere etilene o propilene si deve alimentare l’impianto con il polietilene o il polipropilene. E questo significa che la flessibilità di alimentazione è praticamente nulla.

*comitato scientifico Legambiente