Nell’ultimo lustro la corsa dell’economia circolare nel mondo non si è solo interrotta, ma ha innestato la retromarcia: se nel 2018 era stimata al 9,1%, nel 2020 è scesa all’8,6% e oggi è al 7,2%, secondo l’edizione 2023 del rapporto Circularity gap report, elaborato come di consueto dalla no-profit Circle economy. Al contempo, l’estrazione di materie prime dall’ambiente continua a crescere.

Se nel 1972 venivano estratte 28,6 Gt l’anno di materiali per alimentare il metabolismo economico globale, adesso siamo a oltre 100 Gt – nel 2021 il dato è salito a 101,4 miliardi di tonnellate l’anno –, di cui solo 7,6 Gt arrivano dal riciclo. Questo significa che il 92,8% di tutte le risorse naturali, dopo il primo uso da parte umana, viene sprecato o rimane indisponibile per anni per nuovi utilizzi poiché è incorporato all’interno di edifici, infrastrutture o macchinari a lunga durata.

Allungare il ciclo di vita dei prodotti è certamente un aspetto auspicabile anche in un’economia circolare, ma in questo caso a incidere sono in primis lo spreco e soprattutto la famelica estrazione di materie prime, in continua crescita: «Senza ridurre in modo significativo l’uso dei materiali, è inevitabile che la metrica della circolarità continui a diminuire», evidenzia il rapporto.

Continuando su questa strada, al 2050 si prevede che l’estrazione di risorse naturali raddoppierà ancora rispetto ai livelli del 2015, arrivando a 170-184 Gt l’anno, minacciando «un collasso totale» degli ecosistemi che supportano la (nostra) vita sulla Terra: già oggi 5 dei 9 confini planetari chiave sono stati infranti, e in particolare si stima che il 70% delle emissioni globali di gas serra sia legato all’estrazione e all’uso delle materie prime.

Non si tratta però di un destino ineluttabile, possiamo ancora scegliere di cambiare strada. «Con un’economia circolare, possiamo soddisfare le esigenze delle persone con solo il 70% dei materiali che utilizziamo attualmente, entro i limiti di sicurezza del pianeta» e limitare il riscaldamento globale entro i +2°C dall’era pre-industriale, come spiega il rapporto proponendo 16 soluzioni circolari in quattro ambiti chiave: sistemi alimentari, edifici, beni manifatturieri e materiali di consumo, mobilità e trasporti.

Soluzioni che necessitano di essere declinate in modo differenziato nei vari Paesi del mondo, visti gli ampi divari che li caratterizzano in termini di sviluppo. In particolare gli Stati a più alto reddito che consumano la maggior parte delle risorse, superando di molto la propria quota dei confini planetari – come nel caso dell’Italia, che consuma circa 500 mln di ton l’anno di materiali in larga parte importati – sono chiamati a «concentrarsi sulla riduzione del consumo eccessivo e sull’alleggerimento del loro impatto sull’ambiente».

Questo significa passare dal mero concetto di “efficienza” nell’impiego delle risorse a quello di “sufficienza”: «L’economia è radicata nella natura e la natura ha dei limiti. Dobbiamo quindi porre limiti all’uso dei materiali e dare priorità alla trasformazione di queste risorse in benefici per la società. Questo significa che un’economia circolare deve spingere per un cambiamento culturale, dando priorità ai modi immateriali per soddisfare i bisogni e investire in salute, benessere, istruzione e posti di lavoro dignitosi, piuttosto che nell’accumulo materiale, come fa il modello economico predominante in molte parti del mondo.

Occorre dunque passare da un’economia fondata sul mito della crescita infinita del Pil a un’economia del benessere, riformulando la nozione di progresso in termini più ampi rispetto al solo consumo materiale, come afferma anche l’Agenzia europea dell’ambiente: la riduzione dell’orario di lavoro e l’introduzione di un reddito di base universale, entrambe richieste dei cittadini europei, muoverebbero in tal senso.

Dove ottenere le risorse economiche necessarie? Redistribuendo quelle che sono già presenti, concentrate in pochissime mani. La ricchezza dello 0,1% degli italiani più ricchi è raddoppiata (e quella dello 0,01% triplicata) dalla metà degli anni ’90, mentre quella posseduta dalla metà più povera del Paese è calata dell’80%. Come risultato finale, oggi lo 0,134% degli italiani più ricchi ha in tasca quanto il 60% più povero del Paese: un quadro del tutto incompatibile con qualsivoglia modello di sviluppo sostenibile.

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